venerdì, dicembre 14, 2012

Essere o non essere un distributore automatico, questo è il dilemma!

Parlando di un metallaro che ha dimostrato un'emotività ai due interlocutori della conversazione che riporterò qui sotto, già nota, sebbene ad altre persone sconosciuta, ne è nato un ilare momento che vorrei celebrare.

Per non fare nomi, chiameremo il metallaro in questione "Mufy minore tre minore tre", me stessa medesima "B" e il mio interlocutore "J".

R: "Bimbi, non vi sorprendete, tutti quanti abbiamo un cuore, anche se non vogliamo farlo sapere in giro. Se no, saremmo già morti."
J: "Oppure distributori automatici!"
B: "Sì, di merendine scadute."
Ilarità generale.
B: "Ok. Io sono un distributore di merendine scadute!"

Leggete anche la versione di J., direttamente dal suo blog: Tasmegalpa.

martedì, novembre 27, 2012

"Lost is never found"


Funeral Suits - Hands Down



Puoi essere bello, intelligente, forte; puoi essere un fico impressionante e non rendertene conto. Non in tempo, almeno.
Puoi avere il mondo ai tuoi piedi, amare le donne più incredibili, piegare tutto al tuo volere. Puoi crederci sul serio.

Alza al massimo la musica e portala dietro, ovunque, con te. Alzala al massimo, stordisciti.
Guarda tutto a rallentatore: lo schiudersi delle labbra nel pronunciare il tuo nome; l'agitare delle braccia nella tua direzione.
Riesci persino a notare inesistenti piccole sfumature rossastre fra i suoi capelli bruni.

Apri la bocca ed inizia ad urlare. Non senti niente?
Riprova, più forte, strizzando gli occhi al fine di concentrarti nell'emettere un suono poderoso. Niente? Non senti niente?
La musica copre tutto, intorno: le tue richieste di aiuto; le sue offerte di dartelo.

Crolla stremato sulle ginocchia, la testa fra le mani, i forti singhiozzi.
"Baby, è tutto ok, ci sono qua io, adesso".

Mani a terra, pugni contro il cemento.
Le schegge aguzze della vita entrano nella carne, nelle vene, nella coscienza.
Tu, intanto, continua a colpire forte.

Il rumore del cuore, l'eco di un amore che non ti lascia mai solo, le schegge e le ferite: il corredo di un uomo che ha deciso di smettere di esistere.

Bello, intelligente, forte; eri un fico impressionante e non te ne sei mai reso conto.
Non in tempo, almeno

sabato, novembre 17, 2012

15.06.2012

Voglio amarti come si amano i bambini,
quando si tirano gli aeroplanini di carta, o quando attizzano scenate di gelosia
per una figurina sul diario.

Voglio amarti come si amano gli adolescenti,
quando attendono il buongiorno dell'amato, o quando passano ore a sbaciucchiarsi
nei giardinetti pubblici, o nel cortile della scuola.

Voglio amarti come si amano i bambini grandi,
quando si sostengono l'un l'altro, sempre, per formare una casa, la loro casa,
o quando litigano furiosamente, amandosi altrettanto intensamente,
nonostante i malumori, e le stupide parole.

Vorrei amarti come si amano nelle fiabe,
fino alla fine dei miei giorni.

domenica, novembre 11, 2012

Caro amore morto, ti scrivo

Una donna morta è come il Casu Marzu: puzza, e poi c'ha i vermi.

Tu sei un po' come questo formaggio, adesso, ma mangiarti in Italia è ancora illegale.
Quando avrò voglia di te, ti porterò in acque internazionali: sperimenteremo insieme necrofilia e cannibalismo, uniti, fino all'ultima parte di noi, solo che la tua finisce prima della mia.

Quanto è precaria, la vita.
Adesso sono qui a scriverti di quanto eri bella quel giorno che t'ho incontrata, con i pantaloni verde petrolio e la camicia a scacchi beige.
Adesso sono qui a parlarti, come facevamo quando ci sdraiavamo a letto, con i tuoi occhi chiusi; solo che questa volta hai deciso di dormire in un altro letto e per rendere il tradimento meno difficile da sopportare, l'hai chiamato "tomba".
"Amore, stanotte dormo in un'altra tomba", fa meno male che sapere che la propria donna dorme in un altro letto.
La tomba dell'amore. La tomba del mio amore.

Devo dire che la morte ti ha lasciato intatta, bella come allora. O ti hanno imbalsamato? Ad ogni modo, c'è un ottimo lavoro dietro, qualunque esso sia.
Ti guardo e mi viene voglia di baciarti.
Ti guardo e mi ricordo di quando ti venivo in faccia, e poi ti colava sul viso tonico: ora resterebbe tutto fra le grinze del passato.
Una signora ha appena urlato: "ommioddio, ma lei è un maiale!".
La guardo sorpresa come se mi avesse letto nei pensieri e le rispondo, sorridendole mentre scuoto una mano: "avrebbe dovuto vedere allora quel che facevamo, io e questa maialina morta!".

E' svenuta. Le donne, proprio non le capisco.
Amore, sei particolarmente bella, oggi: ti hanno truccata molto bene.

Una donna morta è come il nero: sta bene su tutto.

mercoledì, novembre 07, 2012

Cena per due

Previous: Bella senz'anima, sei, Monica

Vi ho già raccontato di quella particolare notte con Monica, dopo quattro settimane di frequentazione. Da allora sono passati quattro anni.

Richiamai Monica altre volte: avevo bisogno di sfogarmi.
La vita era uno schifo e lei era l'unica bella illusione.
Sono un uomo metodico e pigro e non ho mai impiegato grandi energie nel tentativo di trovare una donna che mi stesse accanto.
In realtà non sono ancora del tutto convinto della piena veridicità della mia affermazione, ma credo sarebbe uno smacco troppo grande ammettere di non essere in grado di piacere a qualcuno.

Adoro servirmi dell'amore vacuo delle prostitute, confrontato con il niente è sempre qualcosa.
La mia pigrizia, inoltre, ha avuto la meglio anche sulla sperimentazione del campionario della mia città: dopo aver incontrato Monica, mi sono ritenuto soddisfatto e ho terminato la ricerca.
Meglio di Monica, non esiste niente che io conosca.
Non mi sono, però, ritenuto appagato dal fatto di averne trovata una, di donna, e quindi mi sono fermato alla prima. Monica è davvero una bomba, chiunque si sentirebbe il re del mondo dopo aver scopato con lei tutta la notte.
E' la donna più intrigante del pianeta, ma aveva un unico, grosso difetto: non mi amava.

Due giorni fa la richiamai, ancora. Era sempre contenta di venirmi a trovare.
Cenammo a casa mia. Sembrava un appuntamento ed io ero davvero emozionato dall'idea di poterle preparare qualche delizioso manicaretto, e dall'idea di poter finalmente cucinare qualcosa per più di una sola, abbandonata, persona.

Apparecchiai la tavola, con al centro due candele, con due forchette, due coltelli, due tovaglioli. Versai del corposo vino rosso in due calici.
Servì in tavola due piatti di pasta con gorgonzola e zucchine, due fette di carne cotte alla piastra e due coppette di gelato al cioccolato.

Era bella, Monica, quella sera. Era bella, Monica, tutte le sere che l'ho amata.

Next: Un'altra maglietta

domenica, ottobre 21, 2012

Il bisogno di ottenere un numero reale, positivo

Quante volte avrò scritto, cancellato e riscritto, lo stesso testo per poterlo cancellare di nuovo? Tantissime altre volte non ho scritto assolutamente niente che avesse abbastanza importanza da meritare di restare inciso, impresso: in quei momenti, non c'era molto da decidere.

C'è un pensiero che ultimamente non mi dà tregua, imprigiona i miei sentimenti e condiziona il mio agire: mi piacerebbe sapere com'è vivere la tua vita, la nostra storia, nei tuoi panni.
Vorrei alzarmi una mattina e poter indossare i tuoi pantaloni; guardarmi allo specchio e vedere due piccoli occhietti circondati da pelo nero, pelo nero ovunque, a contornare il musetto, a contornare il capo, come un lupo.
Vorrei prendere il tuo zaino, caricarlo in spalla e percorrere il Lungarno; arrivare in ufficio, poggiare tutto per terra e tirare fuori il computer.
Vorrei salutare con un "salve" e non parlare più con nessuno, sedermi, stordirmi di musica, di formule. Vorrei poter stare tranquillo, almeno un giorno, intero. Chiedo troppo?
Vorrei vederti arrivare, in un pomeriggio di debole luce, e ammirare poi, il sole tutto intorno e sul mio viso.
Vorrei saper sommare gli eventi e vorrei che il risultato fosse un numero reale, positivo.

martedì, ottobre 16, 2012

Lungo la strada

Vorrei avere un registratore, in questi momenti, per poter salvare i miei pensieri.
Corrono: troppo veloci per poter essere trascritti, troppo veloci per poter essere raggiunti.
Attraverso la fenditoia di una montagna, sono ancora più confusi: l'eco del silenzio mescola i suoni, morti e sepolti, dei miei desideri.

sabato, settembre 08, 2012

Tenere un blog è da sfigati

Tenere un blog è da sfigati, ammettiamolo.
A nessuno gliene frega niente di leggere la merda che postiamo, solo per il gusto di farlo. Gli interessati a godere di un testo ben scritto, con una trama, un filo logico, si dedicano ad un bel libro: ce ne sono tantissimi, c'è l'imbarazzo della scelta, solo, a differenza dei loro antagonisti, non fanno cagare.

Mi sono dunque chiesta: "perché le persone leggono queste stronzate? e perché c'è chi le scrive?"

Leggere un blog con una tematica, può effettivamente essere interessante, dal punto di vista informativo: tecnologia, sociologia, recensioni letterarie e quant'altro. Leggere come appassionati del settore, del genere. Leggere per documentarsi. Leggere per tenersi informati sugli sviluppi di qualcosa.

Riferito a questo "qualcosa", credo che la maggior parte delle persone legga un blog personale perchè si appassiona, come fosse una telenovela stile Beautiful, solo di serie C - perché Beautiful, come suggerisce il nome stesso, è già di serie B. Lo leggono gli amici, gli amici degli amici, la persona di turno innamorata dell'autore, i troll scassacazzo della minchia, i pettegoli che non vogliono perdersi le nuove evoluzioni della disgraziata vita del loro prediletto.

Leggiamo il blog di qualcuno, in cui parla della sua vita sotto forma di storia, di un sentimento usando metafore completamente incomprensibili, solo per interesse nei confronti della persona stessa, e non del suo modo di scrivere; non importa neanche considerare il tipo di legame presente fra autore e lettore: vanno tutti bene.

A questo punto, considerato che non ha davvero alcun senso leggere un blog solo per il mero gusto di impicciarsi nella vita del blogger, senza nemmeno tener conto del suo modo di scrivere - se ci fa schifo, se è scorrevole, intrigante, ... - credo che debbano scomparire il 70% di quelli esistenti attualmente. Rispetto al passato, il fenomeno è andato via via placandosi, ma l'estinzione purtroppo è ancora lontana. Lascerei dunque in vita i blog divulgativi, qualunque sia il tema, e quelli degli sfigati. Mi fanno troppo ridere.

mercoledì, agosto 22, 2012

209 km, 43 ore, 6 giorni

Ti penso fortissimo, così forte da fare rumore, da essere tangibile; come il tuo dito, che con tocco leggero, mi alza il viso, prendendomi sotto il mento.
E le mie labbra si avvicinano alle tue, pericolosamente. Ho gli occhi chiusi e ti aspetto.
Aspetto il tuo tocco, il tuo bacio, con le labbra socchiuse, a goccia.
Mi sfiori una mano, con la tua la accarezzi, delicatamente, lentamente.
Poi la prendi, la stringi, e mi baci.

Mentre ci baciamo, intrecciamo dita e nocche, in un lento combattimento per la supremazia del piacere. Graffiami appena, sirena.

Le nostre labbra si muovono pianissimo, quasi per non destarsi dal sonno. Restano chiuse, avvinghiate. Poi lentamente si aprono, per cingersi ancora, e restare incollate.
Immobile, assaporo il tuo odore, respiro il tuo respiro, m'inebrio di te.
Mi rilasso, sotto la coltre che ci isola dal mondo, dove siamo io e te. Il resto, non conta.

Immagino il profumo della tua pelle salata, la profondità del perdersi nei tuoi occhi di cucciola, condividendo un respiro ed un'anima. Poni una mano sul mio petto, e ascolta il mio cuore battere all'unisono con il tuo.

Sento il tuo cuore, lo sento come fosse il mio. Batte fortissimo, sembra voglia saltar fuori dal tuo petto ed entrare nel mio. Rimbomba nell'aria circostante, la riempie, ed ora è colma di te: del suono del tuo amore. Voglio sentirti ancora più vicino, voglio fondermi in una sola cosa perdendo l'orientamento e la concezione di me.
Per far ciò, con l'altra mano ti tengo la guancia destra, la sento sotto le dita.
Ti accarezzo appena con il pollice, e lascio che entri in me attraverso il palmo.
Sei così bello, ti voglio proteggere, ti voglio custodire: ti terrò dentro di me, al sicuro, ti lascerò scorrere nelle mie vene, e non ti mancherà niente.
 
Sono senza parole, per quanto mi sento il cuore in gola, per quanto mi streghi, ogni giorno, per quanto vorrei ora abbracciarti da dietro e farti sentire immune da ogni pericolo, perfetta, splendente e caldissima nella fusione, di ogni cosa.

domenica, agosto 12, 2012

La morsa del passato

"Mi spiace, siamo chiusi", dissi sbattendogli la porta in faccia.
Sapevo che non sarebbe finita lì, la discussione: lo sentivo schiumare, quel verme.
Mi agitava la sua presenza, mi intimoriva. Era come avere un cappio al collo, ogni volta che ritornava. Era diventata un'ossessione. Era lui la mia, o io la sua?

Avevamo deciso, una sera, di separare le nostre strade, per sempre.
"Tu torni indietro, da dove sei venuto," gli intimai, "io proseguo".
L'accordo era preso, ed io non volevo trattare oltre.
"Va bene". Sorrise. "Principessa, stai attenta: guardati sempre le spalle".

Con le spalle poggiate contro la porta, reclinai indietro la testa, provando a distanziare il collo dal legno. Il cuore, quello no, non veniva via, non si staccava, il torace era rimasto appiccicato, come la mosca lenta muore affogando nel miele.
Lo sentivo, quel bastardo. Ansimava, fremeva dalla voglia di strangolarmi con quel cappio che mi porto dietro. Riuscì di scatto a voltarmi, ma il cuore non ne voleva sapere, niente. Restava lì, ancorato alla porta, ancorato a lui, oltre la porta. Faticavo a respirare, tanto stretta era la morsa.
Guardai dallo spioncino. Era lì, davanti a me, con i suoi capelli corti, gli occhi enormi e gialli, e la bianca schiuma che colava dalla bocca, giù, lungo il collo.
Faticavo a respirare e mentre lo guardavo, mi sentivo morire.
Non riuscivo a voltarmi. Non riuscivo a chiudere gli occhi. Non riuscivo a fare niente.
Mi guardò, abbassò leggermente il capo, tenendo fisso lo sguardo, penetrando il mio, ed io lo vedi sdoppiarsi, incredula.
Il cuore fagocitò il mio urlo di disperazione: non gli bastava più il sangue, non gli bastava più niente, aveva bisogno di impadronirsi di tutto ciò che di materiale e astratto mi riguardava; aveva smesso di rispondere ai miei comandi ed ero diventata la linfa vitale di me stessa, il mio stesso pranzo.
Era orribile. Ero agghiacciata.

"Questa giornata con te è stata magnifica, ed è tutto merito tuo. Tu, sei magnifica. Grazie, grazie, grazie...". Non mi libererò mai di queste parole. Non svincolerò mai il cervello da questo terribile ricordo.

Lo ripeti ancora, da anni, ormai.
Lo ripeti ancora, a me, adesso, oltre quella porta.
Lo ripeti ancora: stavolta il desiderio di morire che provo, è doppio.

Quando i sensi smettono di guidarti

Why can't you hear me? Why can't you feel me? 
Oh, why can't you hear me? Why don't you heal me? 
So I am nothing if I'm not with you. In the morning, we'll forget this night somehow.



domenica, luglio 29, 2012

La bellezza di chiamarsi Monica

Pioveva tantissimo quel giorno, Patrizia lo ricorda ancora.

Ricorda il sorriso di Monica, lo sguardo stupito che aveva nel veder cadere giù le gocce sul parabrezza, come se in ventisette anni non avesse mai visto niente del genere.
Ricorda ancora, seduta accanto ad un letto d'ospedale, delle mille confidenze reciproche, degli anni trascorsi insieme, delle promesse, del "non ci lasceremo mai", del "ti amerò per sempre".

Monica aveva partorito una bellissima bambina ma da allora non l'aveva ancora abbracciata, né guardata. Erano passati i giorni e lei era in coma.
I dottori dissero che non era grave, che a volte può succedere che l'anestesia tenga una paziente addormentata per tanto tempo. I dottori, adesso, non sanno più cosa dire.

Patrizia passava le ore a fare la spola fra il letto di Monica e il vetro che la separava dalla culla di Cecilia. Più tardi sarebbero passati anche i "nonni", troppo indaffarati per poter gioire della nascita di una nipotina.

Marco era scappato di casa sette mesi prima con Claudia.
Marco era l'immaturo marito di Monica mentre Claudia, la sua bellissima e giovane sorella.

"Mi aveva detto che mi avrebbe amata per sempre, quel giorno che mi portò all'altare. Me lo aveva giurato guardandomi negli occhi. Guardami ora, Patrizia: i miei genitori non hanno mai avuto tempo di volermi bene e mia sorella ha deciso che mio marito era più adatto a lei. Così come tutti i giocattoli, tutti i vestiti, tutti i ragazzi: lei merita il meglio, ed io non merito mai niente."

mercoledì, giugno 27, 2012

La grandezza di un uomo giace nel suo busto

Di lui non vedeva che le gambe, da laggiù.
Era un uomo enorme, gigantesco, altissimo. Era un uomo così fottutamente grande, che di lui si vedevano solo le gambe, ma ciò le bastava.
Non riusciva a guardarlo negli occhi, nemmeno quand'egli era seduto, sul loro letto. Le gambe, piegate, riempivano la stanza: muscoli, sangue e ossa, riempivano il suo vuoto, ma le concedevano di osservarne la base del tronco.
Non si riusciva mai a guardare che faccia avesse quell'uomo, tanto era lontano, tanto era grande.
Lei conosceva le sue cosce, i suoi polpacci; sforzandosi riusciva a ricordare anche i segni del busto, ma era raro che lui si concedesse riposo, sedendosi accanto a lei. Era sempre in piedi. Era sempre in alto. Era sempre il più grande.

Lei lo amava, o almeno, amava quello che di lui poteva avere, vedere o immaginare. Sì, lei lo amava. Tutto.
Amava ciò che lui le concedeva, fosse stato anche solo un piede, lei lo avrebbe desiderato alla follia, quel noccoluto estremo. Alluci inclusi, ché sono importanti, anche se non fondamentali.
Amava quello che di lui immaginava: il suo viso, il suo sguardo, le sue spalle, il suo petto, su cui non avrebbe mai poggiato il capo.
Lo creava e lo distruggeva spesso, nella sua mente; modificava i tratti del viso, i capelli, gli occhi: lo rendeva ogni giorno diverso, sempre più bello.
Lei non si sarebbe mai annoiata di lui: di lui che era lassù; di lui che non era al suo livello.

Ma lei, inutile inetta, poteva amarlo ben più di quanto già facesse, ben più di qualunque altra donna egli abbia mai avuto; poteva dimostrarlo, ora più che mai, in un solo, ridicolo, modo.
Ella decise di donargli una cosa, sopra tutte le altre: quella che più manca, ad un uomo così. Il dono che lei poteva offrirgli, era ben più elaborato di ciò che nasconde intrinsecamente ogni parola con ogni propria definizione.
Non era la tranquillità di quell'immenso essere, ciò che lei poteva garantirgli, difatti, in contrapposizione, ella si premurava di concedergli sempre la giusta dose di incendiari litigi. Non era neppure dimostrargli anche solo una garanzia sulla sicurezza di quello strano rapporto, tutto gambe, ciò che lei poteva fare per lui, visto che si può sempre rescindere qualunque contratto, meno quello stipulato con la morte.

I grandi uomini sono spesso vulnerabili, nel profondo, in un profondo che non si cela nelle gambe o nella testa, ma nel busto, in una zona che s'intravede solo quando essi sono stanchi e hanno bisogno che qualcuno allevii le loro ferite.

Lei non avrebbe mai potuto regalargli niente di più sano, ad un uomo così grande, che il concedergli di ascoltare il suono della sua stessa genuina e poderosa risata, da troppo tempo dimenticata, oscurata dall'oblio; il donargli la consapevolezza che la felicità la meritano tutti, ma alcuni faticano a trovarla.
E quando egli, stanco, tornerà a casa da lei, e siederanno insieme, sul loro letto, non avranno bisogno di parole, non avranno bisogno neppure di guardarsi: saranno le loro risa, a creare un legame che compensi ogni mancanza.

martedì, giugno 19, 2012

Purtroppo arriva sempre la Domenica

Lei viveva in un piccolo villaggio, s'una ridente collina: lì era sempre Sabato.
Lui era follemente innamorato di lei: gli piaceva tutto, proprio tutto, di lei.

"Forse un giorno ti mostrerò qualcosa di me che non ti piacerà: sarà quando ti mollerò."
"Vedrò allora di giocare d'anticipo, in modo da tramandare ai posteri, il fatto che di te mi piaceva tutto, e che ti ho mollato solo per non macchiare questa bella affermazione."

domenica, giugno 17, 2012

Vi siete mai chiesti perché volete sposarvi? (pt. 3)

Al vecchio campano non trovai nessuno: mi girai e rigirai, ma niente.
Mi mossi di qualche passo, lì intorno, fra le viuzze del centro, guardando dietro ogni muro, in ogni finestra là in alto. Niente.
Decisi di aspettare: bofonchiando un "sarà in ritardo, come tutte le donne", mi sedetti e voltai le spalle alla storia.

Knock. "Ahi!", mossi il capo di scatto e mi ritrovai sui pantaloni un nocciolo di ciliegia, caduto dall'alto.
Beh, se Dio si è messo a sputarmi in testa noccioli di ciliegia, siamo alla frutta!
Un altro. Un altro ancora. Mah. Mi grattai la fronte, allibito.
La mia faccia assunse un'espressione sempre più perplessa.
Beatrice faceva capolino dietro il muro e di lei s'intravedeva solo la testolina riccia e bionda, sorrideva, in uno dei pochi momenti della nostra vita insieme in cui l'ho vista sorridere, una delle pochissime volte in cui, in tutti quegli anni, io l'ho mai vista felice, serena, ed era bellissima.


Da allora ne è passato, di tempo. Come ho detto all'inizio, "non ho granchè voglia di raccontarvi la mia storia", per cui adesso procederò ad altissima velocità.

SPEEDx900
Mollai Clarissa con poche parole: "Non ti amo più Chicca, mi spiace". Mi arrivò una grossa sberla.
Mi fidanzai con Bea. Mi tradì ripetutamente con quello, forse anche con altri. La tradì ripetutamente per vendetta, imbottendomi di viagra: le altre donne non mi piacevano per niente, ma qualcosa dovevo pur fare!
SPEEDx1

Il nostro fidanzamento durò tre anni, fra mille alti e un milione di bassi, forse non della stessa intensità.
Cornuto sì, coglione no: per farmi tradire tre anni, avrò avuto dei motivi!, magari non ottimi, magari opinabili, ma erano pur sempre dei cazzo di motivi!
Va bene, non ne avevo nessuno.
L'unica ragione che potevo addurre era che l'amavo alla follia, quella piccola, lurida, stronza, ma spesso l'amore non basta, soprattutto se unilaterale.
Non scopavamo neanche più: si stancava troppo, nel farsi sbattere dagli altri; con la testa contro il muro, l'avrei sbattuta io!

Un giorno decisi che non ne potevo più. Intriso di bile e con il sangue azzurro, le telefonai a lavoro, e lei odiava tantissimo quando le telefonavo a lavoro.
"Pronto?"
"Oh, Bea, senti, dobbiamo parlare."
"Ugo? Che palle! Ma cosa vuoi? Non devi chiamarmi a lavoro! Quante volte te l'ho detto?!"
"Non abbastanza evidentemente. Senti Bea, non mi importa niente di quello che stai facendo, dobbiamo parlare, adesso."
"Ma ti sei bevuto il cervello?! Ora non posso assolutamente. Sto lavorando!"
"Fra trenta minuti sono da te. Regolati!"
Riattaccai e uscii.

Vi risparmio la descrizione sulla folle corsa per raggiungere il suo ufficio: avvocato di stocazzo, era lei, presso uno studio di avvocati di staminchia.
Probabilmente anche il suo capo se la sbatteva: lui contro la scrivania, però!
Entrai nel suo studio con gli occhi di un folle, grondando sudore, bile e azzurro.
"Ma che cazzo ti prende?", esordì la bionda.
"Bea, sono arrivato al capolinea. Con te è un continuo arrampicarsi e precipitare! Non so se mi ami. Non so quanto mi ami. Non lo capisco!
Ho una dannata paura di perderti, a causa della tua costante freddezza nei miei riguardi. Non ridi mai, non sorridi mai. Non facciamo più l'amore!..."

Bea mi guardava sdubbiata, con un labbro arricciato e un sopracciglio inarcato.

"Il tuo amore, Bea. Il tuo amore: io non lo riesco a decifrare! Il tuo essere perennemente ostile... non riesco a darmi per vinto. Ho paura di perderti, Bea: sei ogni giorno più lontana, irraggiungibile. Vorrei fidarmi di te, come una volta. Vorrei poter credere alle tue promesse. Vorrei poter avere dimostrazione del tuo amore. Una prova, una soltanto."
"Averla, Ugo, ti cambierebbe davvero l'esistenza? Se io un giorno smettessi di essere come sono, per un solo giorno, tu, Ugo, ti fideresti di nuovo di me?"
"Bea, non ce la faccio più. Ho bisogno di te, nella mia vita. Non riesco più a vivere con questa angoscia, che come una morsa mi stritola il cuore, spurgando sangue e veleno. Voglio che tu sia mia, per sempre, Bea. Vuoi sposarmi?"

Bea rispose di sì.
Tornammo a casa nostra e facemmo l'amore, tutto il giorno, fino a notte fonda.
La mattina dopo mi svegliai e lei non giaceva più a letto con me.
M'alzai di colpo ritto in piedi e vidi le ante degli armadi e dei mobili, i cassetti: era tutto spalancato.
Bea se n'era andata, portando con sé le sue cose e il mio amore.
Mi lasciò solo un biglietto e un grosso, grosso carico di amarezza e disperazione.

"Sono un'artista. O la tua tela, e tu l'artista. Sono un'opera d'arte. Sono la tua creazione, artista, che prende forma, ma senza il tuo controllo."

sabato, giugno 16, 2012

Vi siete mai chiesti perché volete sposarvi? (pt. 2)

Il giorno dopo mi rispose con un messaggio sul cellulare, telegrafico e brutale.
"Come ti sei permesso di mettere le mani nella mia borsa?! Se ti becco di nuovo, ti denuncio."
Un ottimo inizio, pensai; per contrappasso, avevo il suo numero.

Il giorno a seguire, mi mandò un altro messaggio. Erano le dieci di sera, lo ricordo bene. Avevo un appuntamento con Clarissa, da lì a un paio d'ore.
Clarissa era la mia ragazza.
"C'è qualche nube, oggi, in cielo, ma non mancherò e mi leverò alta. A mezzanotte, vicino al campano. Mi riconoscerai."
Non era la prima volta che giocavo a quello stupido gioco. Avevo già lasciato lo stesso messaggio ad almeno otto ragazze, negli ultimi tre anni.
Era la prima volta, però, che qualcuna rispondeva, che non strappava e gettava via il biglietto, senza neppure dargli peso. Nessuna mi aveva mai richiamato.

Alzai la cornetta e chiamai la mia donna. Le mentii e fu l'unica volta.
"Chicca, ascolta, ho avuto un contrattempo, possiamo rimandare la nostra uscita?"
"Cos'è successo, Ni?"
"Beh, niente. C'è Bob che ha forato una ruota e mi ha chiesto se potevo andare al campano a prenderlo. Si è fermato lì con la macchina."
"Poverino, che sfortuna. Mi spiace non poterti vedere stasera, ci tenevo davvero tanto. E' una settimana intera che sei pieno d'impegni..."
"Dispiace anche a me, Chicca. Mi farò perdonare vedrai. Troverò un po' di tempo, domani, per chiamarti e raggiungerti ovunque sarai, se possibile. Ok?"
"Va bene, Ni... Salutami Bob."
"Grazie Chi. Grazie per aver capito. Ci sentiamo domani. Buonanotte, angelo."
"Buonanotte anche a te."

Telefonai anche a Bob e gli chiesi di reggermi il gioco.
"Ti giuro che domani ti richiamo e ti spiego il perchè. Ora devo andare. Sei un amico."
Riattaccai la cornetta e presi le chiavi, infilai i sandali e corsi in direzione del vecchio campano.

venerdì, giugno 15, 2012

Vi siete mai chiesti perché volete sposarvi? (pt. 1)

Credete davvero che pagare qualcuno, in modo più o meno subdolo, più o meno cosciente, per il suo amore, lo terrà sempre a voi, caro e devoto?
Vi sbagliate di grosso.

Ammetto: non ho granchè voglia di raccontarvi la mia storia: è una fra tante.
Credo, però, che supererò la mia svogliatezza per tediarvi con l'ennesima, anonima, monotona, favola. Che vi serva da lezione!
E indovinate un po'? Avrà anch'essa il solito finale.

Ho sposato Beatrice tre anni fa. Siamo stati fidanzati per tre anni, prima del grande giorno. Quando l'ho conosciuta aveva gli occhi impetuosi del mare in tempesta, azzurri, vitrei, i capelli color dell'oro, lunghi e ricci, quasi innaturali.
Raramente sorrideva, da ragazza, ma era la creatura più affascinante che io avessi mai incontrato. Beh, lo è tuttora, ovunque si sia nascosta, la creatura più affascinante che io abbia mai incontrato, nonostante mi abbia cacato sul petto.
Era una ragazza glaciale, fredda e calcolatrice. Era tutto quello che io non ero.
E che, poi ho scoperto, non avrei mai voluto essere.

Quando ci siamo conosciuti aveva da poco compiuto ventun'anni.
Io ne avevo ventiquattro.
E' stato amore a prima vista, per me: era la ragazza più bella del locale, quella sera. Ed era già di qualcun altro.
Sedeva al bancone del pub, con quello che poi scoprì essere il suo ragazzo, e beveva una birra rossa in un boccale di vetro da un litro.
Che donna!, ne rimasi folgorato.
Avrei tanto voluto poterle parlare, avvicinarmi a lei, ma non trovai il coraggio.
Con che faccia mi presentavo, lì, in mezzo a loro due, pucciosi fidanzatini?
Per dirle, cosa? Per fare, cosa?
Ammettiamolo: non avrei terminato la frase che mi sarebbe arrivato un destro dritto sul naso. Quello che sedeva accanto a lei, non sembrava simpatico.
Decisi così di lasciarle un biglietto, scritto su un fazzoletto raccattato da un dispenser del pub, che le infilai di traverso nella borsa poggiata per terra.
Lei non mi vide. Quello nemmeno. Uscì e andai via.
Il biglietto citava: "Fra due giorni ti mostrerai in tutta la tua bellezza, pallida luna piena?". In basso, scrissi il mio nome, e il mio numero di telefono.

mercoledì, giugno 06, 2012

Bella senz'anima, sei, Monica

Monica era particolarmente bella, quella notte.
Ci frequentavamo da circa quattro settimane e mai era stata bella come allora.
Con lo sguardo di chi il mondo lo aveva già addentato alla gola, sbranato, masticato, e infine sputato, mi guardava vogliosa, distesa sul mio letto.
Avevamo fatto l'amore, tutta la notte, e per tutta la notte le mie labbra non si erano mai allontanate dalla sua pelle.
Mi guardava, Monica, con indosso solo l'odore del mio sapore.

I capelli sconvolti, gli occhioni languidi: com'era bella Monica, quella notte.
I muscoli del suo viso si rilassavano sempre tantissimo, dopo una piacevole scopata; se gli orgasmi che le regalavo, perché uno non le bastava mai, erano abbastanza soddisfacenti, le si imprimeva inoltre un dolcissimo sorriso. E le si gonfiavano le labbra. Entrambe.
Si avvicinò ai piedi del letto e prese la mia maglietta nera dal mucchio dei nostri vestiti. "Nostri": quanto avrei voluto poter dare a quel termine un significato più profondo.
La indossò, e toccando con la pianta del piede destro, nudo, il pavimento gelido, poi poggiando in terra anche il piede sinistro, si alzò in piedi.
"Olimpiadi della Matematica 2012", citava la scritta bianca su fondo nero impressa sulla parte alta della maglia, davanti.
Una parte di me su di lei, ancora una volta.
Avevo constatato, durante quelle quattro settimane, che mi piaceva venire su ogni parte del suo corpo che reputassi bella.
Ho iniziato inondandole il petto e ricordo che quell'orgasmo fu particolarmente violento: getti lunghissimi di sperma mi permisero di apprezzare anche il suo sorriso, e la sua risata.
Successivamente venni sulla sua schiena e, oh, Dio, sui suoi incantevoli, lunghi piedi.
Non c'era una sola parte di lei che non avrei voluto sposare con una parte di me.

Mi sorrise maliziosamente e tirò indietro i capelli, inclinando la testa da un lato.
Aveva gli occhi che bramavano sesso: ancora, ancora.
Le labbra carnose erano ora ancora più gonfie e rosse, irrorate di sangue e piacere.
Ammetto di aver pensato "bella bocca, starebbe magnificamente attorno al mio cazzo", la prima volta che la vidi. Da allora, ogni volta che ci amavamo, mi complimentavo da solo per il gusto e la competenza posti nella scelta.

- Caro, che ne diresti di fumarci una bella sigaretta, io e te, fuori da questa stanza?
Era la sua frase di rito. La frase di rito della mia piccola Bukowski.
La ripeteva ogni settimana, dopo ogni nottata passata a scopare.
Erano le 5.30 del mattino, lo ricordo benissimo.
- Mais oui, Cherie - risposi con la mia, frase di rito.

Uscimmo fuori, in terrazza.
Era troppo presto per ammirare l'alba, ma troppo tardi per godere della notte.
Il freddo mi entrava nelle ossa e le frantumava, mi ricordava che ero ancora vivo, che ero ancora accanto a lei, che lei ancora accanto a me.
Monica fumava la sua sigaretta, sorridendo, e guardando verso l'orizzonte, costituito ormai da una schiera di palazzi. Chiudeva sempre gli occhi, quando aspirava una boccata di veleno, tirando indietro la testa. Al momento di espirare, li spalancava e con il naso cercava il gelo, muovendo ritmicamente le narici.
Era una donna spietata, spietata quanto bella. Ed io ero un uomo fottuto.


Conosco Monica ormai da quattro anni e dal nostro primo incontro non sono più stato in grado di discernere la realtà dalla fantasia.

Nelle mie fantasie, io sono il suo professore di matematica.
Nella mia realtà, lei è la mia prostituta settimanale.

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venerdì, maggio 25, 2012

Frammenti di diario

Teniamo un diario. Sì, un diario.
In realtà è una raccolta di bit: è un diario telematico, digitale, composto da una serie di file, tre per la precisione, memorizzati in una cartella, rigorosamente condivisa.
Come i nostri aneddoti, i nostri ricordi. Come i nostri desideri, le nostre risate.

Teniamo un diario, per ricordare quello che un giorno non ricorderemo più.
Quello che distruggeremo, in preda alla rabbia.
Quello che vorremo dimenticare, perché farebbe altrimenti troppo male.
Quello che la giovinezza porterà seco, lasciandoci la mente intorpidita.
Racconti d'infanzia riemersi dopo intensi discorsi notturni, chiacchiere lunghe quanto preliminari, sessioni illuminanti.
Descrizioni accurate ed esilaranti, che trattano un ignoto, improbabile, futuro.
Vecchiaia imminente, e la visione di essa, nei tratti somatici impressa.
Paure, adesso, finalmente così lontane, esorcizzate grazie ad un sorriso e ad una mano tesa.
Voglie, voglie incredibili, desideri carnali così numerosi, che intasano la mente.
Voglie, voglie incredibili, desideri mentali così numerosi, che trasudano dalla pelle.

"Ci siamo eccitati offendendoci ripetutamente, scherzosamente, a pranzo. E' stato incredibile. Ne voglio ancora, ti voglio sempre."

E ci ricorderemo un giorno, come eravamo, con la speranza di poterci ridere ancora sopra.
O sotto. Insieme, però. Come la matematica, come il sesso, ogni cosa ha il suo reciproco.
Tu sei il mio Yin.
Stavolta voglio rendere i tuoi ricordi diversi: belli, stimolanti, cosicché tu possa trovarli, a distanza di eventi incerti, intensi come allora, quando li hai vissuti.

Credo che poche persone abbiano la fortuna di poter essere incredibili, come te.
Ammetto di aver pensato: "voglio essere te". Ritratto. Non lo vorrei. Non lo vorrei affatto.
Non potrei usufruire, altrimenti, della possibilità di poterti stare accanto, per godere a pieno dell'immenso "disagio" che sei.

"Sì, è terribilmente sexy. Ha anche delle mani divine. Mi piacciono da morire, non avevo mai guardato le mani di un uomo, prima d'ora."

Mi stranisco sempre moltissimo, quando inizio a notare dettagli di una persona che non avevo mai neppure considerato. Dettagli che divengono, col tempo, importanti, fondamentali. Dettagli di cui non posso più fare a meno.
La tua voce. La cosa più sexy che esista su questo pianeta.
Le tue mani. La concretizzazione della parola "maschio".

venerdì, maggio 18, 2012

Non soffermarti alle lacrime

Matilde era viva. Purtroppo, terribilmente malconcia.
Ricordo che una volta, passeggiando, la vidi ferma all'altro lato della strada, di fronte a me, oltre la carreggiata. Era pallida, molto pallida. A causa del suo pallore, quasi non la riconoscevo. Ferma, immobile, come se stesse aspettando, era lì, davanti ai miei occhi.
Mi avvicinai. Avevo troppa voglia di parlarle.
Più muovevo verso lei e più nitidi i dettagli diventavano.
Era in lacrime, pallida, ferma sul ciglio di una strada. Immobile. In piedi.
Piangeva senza tenere il viso fra le mani.
Piangeva a dirotto, tenendo la testa dritta davanti a sè, a dimostrare che non aveva paura a mostrarsi debole.
Piangeva in un modo davvero insolito.
Nel frattempo, avanzavo, attraversando la carreggiata. La vedevo sempre meglio.
Era bellissima, nonostante il pallore.
Riconobbi che non era Matilde, e mi investirono pochi istanti dopo.

sabato, aprile 28, 2012

Richiesto esonero dalla fisica attività di schiavo

Mentire, sempre e comunque.
La sincerità e l'onestà sono un invito a ricevere calci in bocca, gratuitamente.
"Vuoi essere preso a calci, brutto figlio di puttana? No, eh? Allora sparisci e non farti più vedere!"
Scusate, un coglione mi si è avvicinato per chiedere un'informazione, ed io non avevo voglia di vedere gente.
Non mi piace, la gente.

Dicevo... Ah, sì, mentire. Mentire spudoratamente, costantemente, implacabilmente.
Schiacciate le persone come foste un rullo compressore: dite loro che le amate.
Prendetevi, poi, gioco delle loro paure, manipolatele e tramutatele in pressanti angosce: dite loro che le amate.
Vi sentirete bene, un sacco bene. Vi sentirete bene come soltanto pisciare su una margherita, vi fa sentire.

Tirate di coca. E non fate quella faccia. E' la prassi. Dovete darmi retta, voci affidabili mi hanno detto che è la soluzione a tutti i problemi, la coca. Anche l'alcool, in realtà, ma non vi farebbe abbastanza del male.

Si prosegue dando la colpa di tutto, ma proprio tutto, quello che fate, siete, pensate e quant'altro, agli ormoni e alla genetica, un po' come nell'Ottocento si faceva con l'isteria.
Siete dei falliti e degli inetti? Colpa della genetica!
Non riuscite a sedare la rabbia che vi scorre incontrollata nelle vene mentre prendete a cazzotti una faccia di merda solo perché aveva osato chiedervi se era già passato l'autobus delle 11.10? Colpa degli ormoni!

Tirate per aria la giacca, alle vostre spalle, e fregatevene della fine che farà, non vi servirà più.
Prendete fiato, chiudete gli occhi. Tirate fuori dalla tasca il cellulare e lanciatelo. Lanciatelo, forte, davanti a voi, il più lontano possibile. Ripetete l'azione con il pacchetto di sigarette, tolto dall'altra tasca. Urlate. Forte, fortissimo. Urlate più forte che potete. Urlate per cinque secondi. Spaccatevi i timpani.
Smettete. Aprite gli occhi, iniziate a correre.

Correte veloce, sempre più veloce. Non ci sono scuse, è la prassi, dovete farlo.
Per venire incontro alle vostre ridotte capacità motorie, abbiamo predisposto come limite della corsa, un tragitto di una trentina di metri.

Ora, la corsa terminerà, ma prima piazzate bene un piede, saldo sul terreno. Datevi uno slancio, in avanti. Dovete arrivate a toccare l'orizzonte, così lontano. Ci vuole un perfetto slancio, per arrivare a toccare l'orizzonte. E voi volete darvi quel fottuto perfetto slancio. Saltate.

Mentre volerete, in attesa di schiantarvi sulle acuminate rocce sottostanti, strafatti di coca, e con le lacrime agli occhi, vi sentirete liberi. Finalmente, fottutamente liberi.

E da morti, né la genetica, né gli ormoni, potranno più soggiogarvi.

venerdì, aprile 27, 2012

La vita è un campo minato

La maggior parte delle volte che conosci qualcuno, resti ammaliato dal suono della voce, dalla profondità degli occhi, dall'estro schizzato fuori dal poderoso acuto della risata!
Quando ti ho conosciuto, invece, sono rimasta incantata nell'osservare l'insolita, schizofrenica, ampia gestualità del corpo, in netta contrapposizione con lo sguardo spento e malinconico.

Inconcludente insoddisfazione

Vorrei poter disporre di foglio e penna, ogni qualvolta partorisco un'idea.
Vorrei poterne disporre anche quando riesco a formulare, nella mia mente, una gradevole frase sintatticamente corretta, per poterne sviluppare il concetto intrinseco.
Invece, non ce li ho mai a portata di mano! Ammetto, però malvolentieri, che spesso accade di averli a pochi passi. Purtroppo, il tempo necessario a raggiungerli, coincide con quello necessario a distrarsi e dimenticare; le due azioni si fondono ed in mano stringo il foglio mentre in mente ho liberato le idee.
Vorrei porre ora l'attenzione su alcune caratteristiche che uno scrittore non deve avere, non tutte insieme, almeno: pragmatismo e dono della sintesi; esse formano un connubio orribile, instabile, mal strutturato e dannoso per la psiche dell'individuo che li possiede, entrambi. Se ci si aggiunge anche l'Alzheimer precoce, diventa un rito orgiastico di pessimo gusto, decisamente: lo prova il fatto che la maggior parte delle mie frasi, a ragion veduta, terminano con "Fanculo!".
Esclamo così un estemporaneo "Fanculo!", ogni qualvolta perdo di vista l'argomento di cui volevo trattare mentre scrivo la prima parola.
Odio iniziare. Odio iniziare a scrivere. Succedeva anche durante i temi in classe, a scuola. Continuamente.
Odiavo i temi in classe. Alla fine ne tiravo fuori un bel trattato, ma con quanta fatica! Tre ore a disposizione, di cui le prime due passate a guardare gli altri affannarsi sulle carte. A volte guardavo il professore. Lo fissavo proprio, mentre tenevo la testa fra le mani. Volevo fargli capire che non avevo nessuna voglia di svolgere quel dannato tema in classe e che non me ne fregava un accidenti, di niente. Ma a lui, fregava ancora meno, così era sempre il vincitore di quella guerra fredda, il bastardo. Al termine della seconda ora mi rassegnavo e iniziavo a lavorare, direttamente in bella copia, consapevole di non aver il tempo necessario per riguardare il compito.
Odio gli inizi, di ogni cosa. Anzi, di tutte le cose meno che una. Adoro l'inizio di un amore. E' la parte più fica!
A parte questo, non ho mai avuto né voglia, né stimoli, né interesse per le novità. So che ho detto una cazzata, lo so. Ma non lo è integralmente, su. Nel senso, è parzialmente vero. Dipende da come mi gira.
Tornando alle cose che detesto, però, forse odio ancora di più trarre conclusioni da azioni terminate. Che spreco di tempo. Non so mai da dove iniziare quando devo finire! Figurati, quanto interesse ho nel dover riprendere in mano tutto per tirarne le somme. Che spreco infinito del poco tempo che abbiamo.
Credo che l'odio covato derivi dalla mia distrazione, che mi porta a non terminare mai le cose iniziate. Non subito, almeno. Non quando dovrei.

mercoledì, aprile 11, 2012

Non dimenticarmi

Ti ricordi di quella volta in macchina, del nonno che guidava, della tua incoscienza e della mia illuminazione?

Ti ricordi dei matrimoni, dei veli, delle promesse di amore eterno, del messaggio lasciatoci?

Ti ricordi di tutti quei calci dati ad un pallone, tirato contro il muro o la faccia di tua sorella?

Ti ricordi del gioco delle renne, dei pattini - in casa?

Ti ricordi dei fili d'erba, dei guinzagli con collare costruiti per poter portare a spasso un altro animale?

Ti ricordi delle montagne di terra, dei dossi e delle cunette, della BMX gialla, delle gare?

Ti ricordi delle discese, dal fiume al garage, in bici e con i pattini?

Ti ricordi di quella precisa ripida discesa, della bici rossa, del paese confinante, dei freni non funzionanti, dello spavento?

Ti ricordi dei due camper, affiancati, per rendere una piccola città, grande abbastanza da poterci vivere insieme?

Ti ricordi dei piccoli pupazzetti, dei pacchetti di fazzoletti, dei banchi, dei
dialoghi e della noia che ti assaliva in quel gioco, che facevi per rendermi felice?

Ti ricordi della coalizione contro il "nanetto inferocito"?

Ti ricordi di quella volta che restammo tutta la notte abbracciati, soli in casa, perché spaventati dal film dei dinosauri?

Ti ricordi del gruppo di Batman&Co., nel garage e nella cantina con te, sempre a difendere il bene?

Ti ricordi della Jamaica, degli insegnamenti, degli esami superati?

Ti ricordi del cartone del figlio degli Dei, dell'enorme cuscino di spugna e della sottile "tàccara di lignàmi"?

Ti ricordi delle spinte contro il materasso, tu sdraiato a pancia in giù ed io sopra di te, e delle sonore risate?

Ti ricordi delle liti, delle ore concesse al pc, del furto del mouse, dell'ingegnoso uso della tastiera?

Ti ricordi di quel gioco, della paura causataci da un lupo sbucato dal nulla pronto ad avventarsi al collo della giovane eroina da noi, maldestramente, guidata, della botta in terra che facemmo, della promessa di non giocarci più?

Ti ricordi di tutto ciò che abbiamo insieme vissuto, che non è strano, ivi, intelligibilmente trascritto?


Ti ricordi dell'incendio?
Non dimenticare mai niente, ragazzo: sebbene tutto ciò che di materiale ci ha cresciuto, ora non esiste più, io e te siamo ancora gli stessi, soltanto divisi.

martedì, aprile 10, 2012

Tutto, tranne la piña colada

- Fammi qualcosa di forte, stronzo. Mio marito mi ha tradito con una sporca puttana bionda, una sciacquetta da quattro soldi con gli occhi da cerbiatta.

Siamo alle Maldive e questa strana tizia, che farfuglia offese e accuse, ha preso un aereo per andarsi a sbronzare.
Dall'altro capo del mondo.
Per un uomo. Mah.
Dovevano partire insieme, per vendere cocktail di ogni tipo, tranne la piña colada, in una spiaggia tropicale.
Dovevano fuggire da un altro uomo, lei e il bastardo che alla fine si è sposata.

- Fammi un cazzo di cocktail, feccia.
- Signora, sarebbe meglio per lei se la smettesse immediatamente di offendere. Non le servo proprio niente e tenga bene a mente che non è affatto colpa mia se la sua vita fa schifo!
- Allora sciacquati fuori dalle palle, ragazzino. Lo faccio io, un cazzo di blowjob. Ho bisogno d'ingoiare qualcosa di forte, adesso.

domenica, aprile 08, 2012

Questioni cromatiche

La mia psiche turbata reputa l'accostamento cromatico bianco-verde acqua troppo delicato.
Ultimamente, però, ha iniziato a rivalutare la combinazione rosso-nero, da lei tanto osannata.

Onestamente, quest'ultima, resta ancora una singolare accoppiata, sebbene sia diventata un po' mainstream di questi tempi, perdendo il suo fascino iniziale.
Il nero è un colore impegnativo: riuscire ad osservarlo per un tempo prolungato richiede un allenamento, della retina e dei bastoncelli dell'occhio, costante nel tempo.
E la costanza non ci piace per niente - ove il plurale maiestatis, si riferisce ad entrambe le mie personalità, stranamente in accordo, almeno su questo punto!
Il rosso per contrapposizione, invece, non richiede alcun impegno di focalizzazione: è un colore che invade il campo visivo, stuprando il cervello riducendolo ad esanime vegetale.

La loro unione, per risultare gradevole, deve adempiere ad una lista di caratteristiche ben precise, di cui, al momento, non si ha memoria: una di esse è la disposizione dei soggetti in gioco.

Disporre i colori, non importa l'ordine, all'interno di rettangoli distinti, paralleli, più alti che larghi, in verticale, genera una disfunzione cardiaca quasi istantanea. Lo stacco netto, che costringe lo sguardo a saltare in maniera troppo rapida fra i due, risulta oneroso da metabolizzare, affaticando eccessivamente gli occhi, che iniziano a richiedere un afflusso di sangue sempre maggiore, sovraccaricando la pompa vitale che cerca, invano, di essere all'altezza di un compito così arduo.
Esito finale: sopraggiunge, inesorabile, la morte dell'individuo.

E' facile intuire, per cui lasciamo la dimostrazione per esercizio al lettore, che la stessa cosa accade anche nel caso in cui i rettangoli sono posti orizzontalmente, paralleli, con larghezza maggiore rispetto all'altezza.

E' un connubio letale, questa malsana unione cromatica.

Sarebbe meglio se mi convertissi all'adulazione della combinazione bianco-verde acqua che, sebbene sia troppo delicata per essere apprezzata dall'insanità mentale che mi contraddistingue, potrebbe rivelarsi l'unica via d'uscita disponibile.

venerdì, aprile 06, 2012

Parlo io o parli tu? E parla tu!

Non bisogna mai perdere alcuna occasione per parlare di se stessi. Mai.

Dobbiamo renderci conto che è giunto il momento d'iniziare a sfruttare tutti gli slanci di disponibilità al dialogo – meglio se ascolto – che riceviamo dalle persone: a loro non frega assolutamente niente di quel che abbiamo da dire per cui, attacchiamo!
Occorre, dunque, sfruttare ogni ipocrita "come stai?" oppure "cosa hai fatto oggi?", di cortesia, per stordire il bastardo di parole: non importa nemmeno che esse abbiano un qualche recondito senso! - tanto, dopo un paio di minuti, lo stronzo smette di ascoltarci, a maggior ragione se non gli diamo modo di intervenire. Per dirci la sua opinione. Non richiesta. Inopportuna.
Per poi raccontarci di sé.
Fanculo.

La gente si disinteressa di quello che diciamo dopo soli sessantanove secondi di monologo da parte nostra.
Tutto ciò accade, soprattutto, nei momenti in cui l'unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è essere ascoltati un pochino; quando invece, ad esempio, parliamo di una cosa di cui non c'importa assolutamente niente, l'interlocutore è stranamente catturato da un rinnovato senso d'interesse e, rapito, ci osserva a bocca aperta e ci lascia discorrere. Stronzo.
Fanculo. Di nuovo.

Le persone vogliono solo parlare di sé: porca miseria, però ne abbiamo bisogno anche noi! Sarà mai possibile ottenere un minimo di collaborazione, in questo mondo di vanitosi egocentrici? Mah.
Fanculo. E so' tre!

- Ho questo problema X che non riesco a risolvere perché mi fa sentire Y.
- Uh, ho vissuto la tua stessa situazione! Praticamente io bla bla bla.

ESPLODI! ORA!

E così, poveri abbandonati reietti, malediciamo tutti i martiri del calendario perchè volevamo solo essere ascoltati una buona santa volta.
E così mettiamo il muso. Giustamente, vorrei anche aggiungere!

A questo punto, la merda se ne accorge, e ci chiede se è tutto ok.
Ma lui è furbo, ne sa mille in più di noi: alla bestia basta un "sì certo, perché me lo chiedi? E' tutto ok!" come risposta, per pulirsi la coscienza!
Egli potrà, quindi, solennemente annunciare:
- Io mi sono interessato a te. Ti ho chiesto se era tutto ok. Tu hai risposto “sì, certo”. Quindi, mi spiace, ma io ho fatto tutto ciò che era in mio potere.

ESPLODI! ORA!
Poi, sui tuoi resti, devono cagarci i piccioni.
Fanculo. Quattro: il porco.

L'unica cosa che volevamo era parlare di noi e di questo nostro, dannato, infame problema! Volevamo solo esporci per attirare l'attenzione, ed essere ascoltati!

In realtà, se proprio vogliamo essere pignoli, il nostro gesto ha funzionato!
Se ci soffermiamo sul risultato ottenuto, possiamo notare che l'altro si è avvicinato a noi, catturato dalle nostre parole, e ha colto la palla al balzo per poi, SBADABAM, parlare di sé e ancora di sé! Dannazione!

Vogliamo parlare poi delle conversazioni parallele?
Sono quei tipi di discorsi in cui a nessuno degli interlocutori interessa sul serio quello che hanno da dire gli altri coinvolti.
Sono quei tipi di discorsi che viaggiano su binari paralleli, come un-parlare-da-soli: in fondo, l'unica cosa importante, a quanto pare, è parlare.

L'ascolto, conservalo per qualcun altro.

Una conversazione parallela può essere questa:
- Vieni a combattere gli sbalzi d'umore in cavalieri, Bi?
- Nono, resto a casa.
- Mi hanno appena ucciso da sceriffo, bu.
- Ahahahahhah! Sono contenta!
- Ti lascio con una dolcissima buonanotte, per accompagnare il diabete.

Ci sono momenti in cui inizi a gesticolare come un pupazzo in legno con la cordicella che, tirandola, fa muovere gambe e braccia, come se si volesse creare un angelo nella neve, cercando disperatamente di attirare l'attenzione del mondo. A questo punto, se l'unica cosa che ottieni è un: "ci sentiamo domani, buonanotte!", cosa fai? Niente!
A parte: imprecare sottovoce; fare spallucce; dire "sticazzi!"; ricordarsi che dopo il quattro, segue il cinque per poter dire:
Fanculo.

Per ricollegarci ad un discorso precedentemente introdotto, quando sei preso da un momento di euforia e speranza in cui decidi di esporti, bene!, non farlo!, ripensaci finché sei in tempo: non porgere la guancia se non vuoi ricevere uno schiaffo che ti faccia volare fuori dalla bocca i canini del lato esposto.

Come ha detto una volta mio cugino: "è quando sei pronto a mettere la mano sul fuoco, che ti bruci!"

La Fame Di Camilla - La Mia Parte Più Debole

domenica, aprile 01, 2012

Il padre di Alessandra

Alessandra, all'epoca in cui vi racconto questo aneddoto, aveva 19 anni, un pensiero fisso per la testa ed una risata diabolica.

Alessandra adesso ha 23 anni.
Il pensiero fisso è diventato un rimorso, o un rimpianto, non lo sa ancora in realtà.
La sua risata si è dissolta nel tempo, perdendo d'intensità il suono.

Aveva un cuore enorme, Alessandra: anche quello disciolto nell'acido.
Aveva degli ideali, lei, povera piccola adolescente che credeva di poter rigirare il mondo come un calzino, al fine di trovarne una parte pura, pulita.
Allo stato attuale delle cose, della piccola Alessandra non vi sono tracce, sebbene i cantastorie narrino, in giro per i paesi, di aver udito l'eco straziante della sua torva risata.
Pare sia scappata via per inseguire strani ideali, in dimensioni parallele: dimensioni che non esistevano già più, quando compì l'insano gesto.
La nostra supposizione non ha fondamento, è vero, ma non dispone neppure di tangibili prove che la confutano, però.

Era un giorno un po' strano, ricordo.
Era un giorno perso nel tempo, tanti anni or sono.
Ricordo un po' male, in realtà, quel giorno un po' strano perso nel tempo.
C'era un lungo tavolo, mi sembra, al centro di una stanza gigantesca, quasi vuota, ove ci saranno stati al più due quadri appesi alle pareti, raffiguranti paesaggi primaverili, così demodé.

Alessandra era posta in piedi ad un capo del tavolo e stringeva le mani in due pugni di ferro che avrebbero potuto, se solo avessero voluto, spaccare il tavolo in due parti, longitudinalmente.
All'altro capo, impassibile, freddo, sedeva il padre, il cui nome non è importante ai fini della storia.
Alessandra urlava e con i pugni poggiati sul legno del tavolo, conficcava le sue unghie, lunghe e nere, nella carne viva dei palmi.

Non perdeva sangue, sangue non ne aveva.
Non può avere sangue, un essere così spregevole, un essere senza cuore.
Pompava veleno, il suo cervello, inibito dall'alcool.

Alessandra urlava, frasi sconnesse e piene di rancore. Frasi senza un tempo e senza un luogo. Frasi senza un soggetto.
Il padre sedeva di fronte a lei, all'altro capo del lungo tavolo, e la guardava sbraitare, con le braccia conserte.
Le ricordava sua moglie, prima che scappasse con quello stronzo del suo vicino di banco, ai tempi delle elementari.

Gran brutta troia.
Gran figlio di puttana.
Avrebbe voluto abbracciarla, la sua piccola implicazione di carne e veleno, ma la sua pigrizia glielo impediva.
Era un gran brutto coglione che aveva cercato per diciannove anni di tenere a sé una gran brutta troia per poi farsela fottere da un gran figlio di puttana.

Alessandra voleva solo farsi ascoltare e capire dall'unico uomo che avesse mai amato, e che non l'aveva mai amata abbastanza.

venerdì, marzo 30, 2012

Omaggio a Vinogradovspotting

Scegli di vivere una passione irresistibile, di quelle che ti mozzano il fiato.
Scegli di viverne altre, e ancora, e ancora, e ancora.
Scegli di fartele piacere, tanto, così tanto da renderle vitali.
Scegli di abbandonare ogni sano principio, ogni certezza, ogni sicurezza, per seguire la cosa più insana che potessi mai incontrare.

Scegli di non essere più quella che sei, ma quella che eri.
Scegli di non essere, ma di avere.

Scegli di avere ancora 20 anni, per poter oscillare fra l'età effettiva, di cui non riesci a tenere più il conto, l'età ideale e l'età mentale.
Scegli di avere i capelli rossi ed il costante sorriso sulle labbra.

Scegli di nasconderti dietro un dito.

Scegli di distruggerti e ricostruirti.

Quando scegli di non ammettere di avere un cuore, vuol dire che sei arrivato all'acme dello zen, ora, però, muoviti e scendi di lì!

venerdì, marzo 23, 2012

Metabolizzare la separazione

Era evidente, era tutto così fottutamente evidente.
Guardati. Guardami.
Il torpore di una solitudine che sembrava remota e dispersa nell'etere aleggiava, invece, sulle nostre spalle da tempo; non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.

Eravamo soli, insieme. Eravamo due mondi appartenenti a diversi sistemi planetari, destinati a non comunicare più, se non tramite l'unione, vile e cruda, fra il selvaggio estemporaneo impeto di rabbia e quello di gelosia.
Eppure, guardami, guardati, non eravamo ciò che credevamo, per quanto bello possa esser stato: tremendo è stato quel mese e mezzo che sembrava non passare mai; tremenda è la gioia che ora ci perdave, individualmente.

Guardati, guardami: siamo tornati quello che eravamo prima di completarci.
I vecchi amici, tu; i nuovi amici, io.
La piazza, le serata in casa, tu; la matematica, la facoltà, io.

Il verdetto è arrivato con la spiazzante sensazione del déjà vu: riprendere in mano la propria vita, le proprie passioni, abbandonate per colpa della simbiosi.
I gesti più semplici e naturali; leggere, scrivere, piangere; gli stessi semplici, stupidi, naturali gesti che avevo smesso di fare, sono ora la mia vita, di nuovo.

Tiri fuori la lingua e mi ricordi lui, ed io ti sono immensamente grata per avermi liberato: il più bel gesto d'amore che potessi mai fare, per me.

lunedì, marzo 19, 2012

Ora meglio, grazie

"Come stai?": in alcuni momenti è l'unica cosa che vorremmo ci chiedessero.

Siamo costretti ad aspettare una vita, prima di trovare qualcuno che si interessi a noi.

La verità è che, per tutta la vita in cui abbiamo atteso, non ci siamo mai resi conto di aver sempre avuto qualcuno accanto, a prendersi cura di noi, che non aveva bisogno di chiederci niente: quando voleva sapere, ci guardava, e noi gli rispondevamo.





sabato, marzo 17, 2012

Schedulando le donne si schematizza il rancore

Le donne sono degli esserini difficili, terribilmente difficili.
Diventa tutto un enorme, insormontabile problema quando entra in gioco il fattore X, di troppo. Anche dire "ciao!", genera un segmentation fault!

Con loro è impossibile riuscire a rapportarsi da pari: sarai sempre inferiore, dunque non meritevole della loro attenzione, o nettamente superiore, in tal caso le femminili paturnie non consentono un normale confronto; non riuscirai mai ad essere al loro livello. Mai.

Le donne sono o madri o figlie: non riescono mai a trovare una fottuta via di mezzo, diventando compagne.

Le donne sono radicali, soprattutto quando di mezzo c'è l'amore: ti amano alla follia e darebbero la vita per te, un giorno; il giorno dopo sei semplicemente una persona a cui vogliono bene, fra i tanti.
Quando amano lo fanno con totale trasporto e abbandono, in modo completo, travolgente, estenuante. Quando smettono di amare, non c'è niente che le farà tornare indietro. Rassegnati, è finita.

Succubi del partner o indomabili libertine.
Graziose educande o impure scellerate.
Melense caramelle di zucchero o tremende schizzate di bile e limone.

Le donne sono difficili da gestire, sempre: in più, da sbronze, mestruate o stressate, diventano terribili; quando poi sono simultaneamente compresenti tutti gli aggettivi, diventano impossibili.

Rapportarsi con le donne è come giocare a DOOM, modalità Nightmare.
Le donne hanno pensieri che difficilmente ti esporranno: troppo complessi per un'idiota del tuo calibro o decisamente ridicoli, una marea di stronzate, per un fottuto genio come te.

E' difficile anche indovinare quando una donna contraccambia un interesse.
Il 90% delle volte il target scelto è sbagliato, il restante 10% ricevi dei "no" da donne che corrispondono il tuo amore. E allora, fanculo.

Le donne intimoriscono brutalmente: ti stringono la mano, ti abbracciano, ti fanno gli occhioni dolci, ti danno un bacio sulle labbra, ma alla fine non sono interessate a te. E allora, fanculo, due volte.

Ho smesso di provarci con le donne, continuerò a guardarle sospirando: e poi si lamentano anche, di quanto sia difficile attrarre a sé un uomo!

Il mio commento: se solo tu la smettessi di comportarti da vedova nera o mantide religiosa con la puzza da snob sotto al naso ed il tuo imperturbabile viso che non può accennare un sorriso altrimenti "oh-mio-dio mi si rovinerà il trucco", potresti avere tutti gli uomini ai tuoi piedi, senza doverli stuprare per poter fargli capire che ti piacciono - anche se, comunque, non lo faresti perché "una ragazza non fa queste cose". Rutto sonoro.

Ci vuole fascino, non insipida bellezza.

E poi, donne, piantatela di rifiutare le persone che vi piacciono - sul serio, è frustrante! - solo perché "me la devo tirare", "mi deve desiderare", "ce l'ho solo io e non la do ad uno straccione come te".

Donne, siete difficili. Terribilmente difficili.
Datevi una cazzo di regolata, porca miseria!

martedì, marzo 13, 2012

La cura

"Se non sei in grado di curare una pianta, vuol dire che non sei in grado di curare un'altra persona", mi ha detto oggi FC.

Sono profondamente d'accordo con le sue parole e, mio malgrado, le sottoscrivo.
In aggiunta, mi arrogo il diritto di aggiungere che "se non sei in grado, nemmeno, di curarti di te stesso, vuol dire che non sei, a maggior ragione, in grado di curare un'altra persona".

sabato, marzo 10, 2012

Il sorriso di Andrea

Andrea si avvicinò all'uomo seduto sulla panchina: gli corse incontro e si fermò davanti a lui che, con i gomiti poggiati sulle ginocchia, era chino su un libro.

Era un uomo spento, spossato, terribilmente stanco. Le rigonfie borse sotto gli occhi lasciavano libera interpretazione alla sua nottata passata. Probabilmente aveva pianto un sacco, pover'uomo: lo sguardo perso, sulla pagina, inseguendo immobile una parola che non trovò mai.

Andrea lo toccò senza fargli male, con la punta dell'indice, scuotendogli leggermente la testa.

L'uomo trasalì e sgranò gli occhi, disarmato nel vedersi estirpato da quella pagina, e gli balenò per un solo eterno attimo la sua più grande speranza, sgretolata: non avrebbe mai trovato quella stupida parola.

Deglutì, chiuse gli occhi, provò a rilassarsi, li riaprì ed alzò il capo: un'insolente bambinetta era ciò che gli si mostrava davanti.

Una maleducata creatura, di non più di 8 anni, l'aveva scosso dal suo torpore. Insolente. Maleducata.

Impassibile la guardò, a labbra serrate e con sguardo assente, mentre lei sfoggiava uno dei più candidi e gioviali sorrisi.

- Desidera? - le disse.

- Ciao, io sono Andrea. Tu chi sei?

Stordito dall'insensata ed ingenua domanda, spaesato per questo assurdo evento, guardò la bambina che sembrava scrutarlo, osservarlo, studiarlo. La sua espressione guadagnò tonalità di severità e rimprovero, che corredavano l'imperscrutabilità di quell'uomo rude.

- Mi chiamo Peter. E tu mi hai disturbato. Hai interrotto la mia lettura. Hai qualcosa di importante da dirmi o posso ritornare al mio libro?

- Avevi lo sguardo fisso, non si legge così! Se vuoi ti insegno come si fa! - e sfoderò un abbagliante sorriso - La mia mamma mi fa leggere sempre tante pagine!

"Lei, insegnarmi qualcosa? Una stupida supponente bambina di non più di 8 anni, insegnarmi qualcosa?!", pensò, ed iniziò a sudare freddo, dalla rabbia.

- E come ti ha insegnato a leggere, la tua mamma? A voce alta, affinché tu scandisca bene le parole? O nella tua mente, cosicché tu possa andare oltre il semplice scritto e ritrovarti immersa nel mondo descritto?

- La mia mamma mi ha insegnato a leggere, non mi ha detto in che modo farlo... Mi ha solo detto di applicarmi, di impegnami, di desiderare di imparare. Non pensavo nemmeno esistessero tutti questi modi per poterlo fare, signore! Vuole insegnarmene qualcuno?

L'uomo la guardò, scettico. "Ma da dove è saltata fuori e da me, che cosa vuole?".

- Dove sono i tuoi genitori, piccola?

- Sono morti, signore. Ed io corro per il parco tutto il giorno, scuotendo le persone assopite.

S'inquietò moltissimo per la risposta e una coltre di ricordi lo sommerse.
Si divincolò, al solito, senza riuscire a tirar fuori la testa: quando gli succedeva di essere sommerso dal peso del suo essere, l'unica cosa che faceva era aspettare - la coltre sarebbe andata via da sola.

Qualche secondo dopo, attanagliato dal peso della memoria, con l'angoscia che saliva sempre di più, impiantandosi nell'intestino come un verme che entra nell'organismo dall'ombelico ed inizia a distruggere le funzioni vitali di tutte le cellule, ricordò le parole della stolta: "mi ha solo detto di applicarmi, di impegnami, di desiderare di imparare."

Chiuse gli occhi: iniziò a pensare all'austera severità della madre, che tante cose gli aveva insegnato, e alla pazienza inenarrabile del padre, rimasta al suo fianco fino all'ultimo, fino ad allora, importante giorno della sua vita.
Sorrise, e una lacrima gli percorse il viso.

Aprì gli occhi e vide il sole. La nube era sparita e davanti a sé aveva ancora quella bambina che lo guardava, sempre maledettamente sorridente.
Insolente. Supponente. Maleducata.

Si accorse, suo malgrado, che le stava ricambiando il sorriso. Trasalì.

- ANDREAAA! Torna subito qui, maledetta!!! - gridò a piena voce un uomo, in lontananza, che si dirigeva verso di loro agitando le braccia e correndo come un disperato.

- Devo andare, signore. La gente si diverte ad inseguirmi mentre corro per il parco tutto il giorno, scuotendo le persone assopite.

Andrea socchiuse gli occhi, si voltò e corse via.

domenica, marzo 04, 2012

Benda sulla fronte


Lui e lei s'incontrarono: un solo sguardo servì loro a capire che non si sarebbero mai separati, nel bene, nel male.

Lui iniziò a vomitare, sangue e veleno, sugli splendidi vestiti di lei. Indossava una maglietta rosso carminio, che non s'intonava particolarmente col rosso grumoso schizzato qua e là sul tessuto. Il risultato era simile all'accostamento di due diverse tonalità di nero: ripugnante e antiestetico. La punta delle sue scarpe era diventata viola, intrisa di vodka e pezzi di frutta, di granatina e vino, ulteriormente fermentato.

Lei iniziò a sudare e ad agitarsi. Guardò le sue mani, lunghe e affusolate, contorcersi fra i capelli di lui, ormai corti e sottili. Guardò la sua fedina. Si voltò, riconobbe in quel cestino dei rifiuti la sua perfetta storia d'amore durata tre anni. Sgranò gli occhi, poi li socchiuse, sforzando enormemente la vista: non riuscì a riconoscere la motivazione che avvolgeva quel fagotto.

Lui era agonizzante e puzzava di vomito. Un acre odore emanava, simile a quello dello sperma più acido che si possa concepire. Puzzava di fogna, puzzava di bile, e piangeva. Urlava strane bestemmie, parlava di merda, denigrava l'operato più sincero. I "ti amo" si intervallavano ai "ti odio", arrivati dal nulla e nel nulla si dirigevano. Le parole sembravano non avere più un'anima, un concetto profondo: erano state liberate, ed ora fluttuavano nell'aria come bolle di sapone, pronte a scoppiare e sparire per sempre.

Lei lo aveva visto tante volte piangere e, in tutte quelle volte, non era mai riuscita a generare una lacrima dai suoi cinici occhi, a ricambiare lo straziante stato d'animo in cui lui giaceva. Forse una volta o due ce l'aveva fatta, ma l'impercettibilità di quell'evento ha impedito alla storia di essere trascritta, e non ne rimane memoria. Lo aveva visto tante volte piangere, lui che ha sempre avuto il coraggio di dimostrarsi infelice, impaurito, insicuro, innamorato.

lunedì, febbraio 27, 2012

L'insoddisfazione di Viola

Cosimo era su una quercia. Lei si fermò sotto, in un prato.
- Sono stanca.
- Di quelli?
- Di tutti voi.
- Ah.
- Loro m'hanno dato le più grandi prove d'amore...
Cosimo sputò.
- ... Ma non mi bastano.

(Italo Calvino - Il Barone Rampante)

venerdì, febbraio 24, 2012

Quando non vuoi dire niente, succede così

Questo potrebbe essere davvero il momento migliore per scrivere.
Dopo che hai vomitato sangue sulla tua stessa faccia, potresti raccogliere le idee, riformularle ed evitare di esplodere, creando un nuovo ascesso.
Magari prima di fare qualunque cosa, prendi il fazzoletto accanto e pulisciti il viso. Gli occhi, almeno.
Ferma i pensieri, che corrono come un cucciolo di cane, liberato dopo esser stato rinchiuso per chissà quanto tempo in un'angusta, gelida gabbia, mentre attendeva, chissà cosa. La sua morte, forse, come tutti del resto.
Convogliali più in là, questi pensieri: qui c'è ancora troppo baccano.
Senti la tua voce che continua a ripetere le stesse parole, che non trascriverai perché quelli, almeno quelli, sono solo affari tuoi.
E poi rileggi, ancora, ancora, e ancora, e ti fa sempre più schifo tutto quello che finora hai scritto.
Non ha il suono che ti eri immaginato, nemmeno lontanamente. Non ne ha lo stile ed il tema, auspicati. Non sembra neppure la sagoma scura di quello che volevi creare. E' solo una pallida ombra, color del pavimento, inesistente; è solo un altro aborto, nato da una madre senza cuore, incapace di provare amore e compassione; è un'altra piccola bieca entità che verrà riposta nel più remoto angolo del tuo cuore.
Ma devi scrivere, non puoi mica lasciare intonso questo muro del pianto?
Vuoi davvero lasciar morire di tedio l'ennesimo aborto, già morto?
Altrimenti ti appelli come incostante ed incoerente, e sei la solita doppiogiochista: colei che non sa scegliere cosa essere e cosa avere. E così è, ed ha, tutto e niente.
Non è un proposito il tuo, lo sappiamo, non te ne rammaricare.
Sei un caso patologico, per questo ti commiseriamo; e abbiamo di te pietà; e proviamo pena, nel guardarti: povero piccolo essere; ambiziosa nullità desiderosa di una vita mediocre, consapevole di non valere dieci lire.
Bei tempi, che non ho nemmeno vissuto. Ma è mainstream dire "bei tempi". Anche dire mainstream è, ormai, mainstream, ma non vogliono ammetterlo. Mah.
Allora, tornando al discorso iniziale, che non esiste, di cosa vuoi parlarci questa volta?
Probabilmente di niente, ma sono riuscita, arrancando, ad arrivare alla meta, trattenendomi dall'insensato impulso di chiudere l'ennesimo blog.

Ipocrisia

Ammettiamolo, per piacere: occorre sincerità in questo fottuto pianeta.
Possibile che tutti debbano sempre mentire spudoratamente?
- Mi piace un sacco quello che hai cucinato! (anche se è tutto bruciato)
- Ti sta benissimo questo taglio di capelli. (ma non l'avevo notato prima che tu mi chiedessi: "Come mi stanno i capelli? Li ho tagliati oggi!")

Smettiamola, per piacere, con tutta questa blanda ipocrisia da quattro soldi. Capisco, me ne sono resa conto quando mia mamma mi ha detto per la prima volta: "Tu non stai tanto bene col cervello, figlia mia", di aver perso il barlume di intelligenza che illuminava il mio cammino quando ero una piccola creatura indifesa, ma così mi sembra veramente deridere gratuitamente il mio senso critico, che si è acuito, invece, con la vecchiaia.

Tagliamo questo filo spastico che ci unisce, fatto di menzogne e frasi di circostanza: ha davvero una motivazione, la sua esistenza, al giorno d'oggi?
Compiacerci del tentato imbroglio non ci renderà migliori, né furbi.
Non ci renderà saggi, né oculati. Ci renderà solo dei gran figli di puttana.

Il mio sorriso, con i miei canini appuntiti, enormi, rispetto alla prospettiva creata dagli altri denti, è come un calzino sporco e bucato, fissato con una spilla da balia ad un vestito nero, tirato a lucido e terribilmente sexy.

E i miei occhi? Vogliamo parlarne. Merda. Merda totale: dal colore alla forma, all'espressività al contorno.
Trasudano dell'essenza della mia anima: l'emblema del vuoto.

giovedì, febbraio 23, 2012

Come t'ammazzo la poesia in due semplici mosse

Augurarsi la morte, lo facciamo tutti.

- A me piacerebbe morire senza rendermene conto, mentre sono a letto e dormo. Muoio, e non me ne accorgo. E non provo dolore. E non piango. E' fantastico, non trovi?

- A me piacerebbe morire guardando negli occhi la persona che amo. L'ultima visione, prima del nulla, sarà lo sguardo che mi ha rubato il cuore e il cervello. La mia anima la ruberà la morte, ma la salverà la sua, quando mi raggiungerà.

- Io voglio morire scopando!

- Ma come sei truce e materiale!, sei veramente disgustoso.

- Ma stai scherzando?! Non esiste nemmeno lontanamente una morte migliore di quella! Immagina la scena: scopi, magari sei sopra e spingi come un coniglio in calore, ingrifatissimo. Gemi come un disperato. Ad un certo punto le tue parole: "Stella, vengo", fanno strada a schizzi e schizzi di sperma. E inclini la testa, all'indietro, corrucciando la fronte. Sborri come mai hai fatto prima. Un orgasmo talmente intenso che urli di piacere e poi muori. Stroncato. CRACK.

- Effettivamente, è uno splendido modo di morire. Facendo l'amore con la persona amata, sì. Suggestivo...

- Però, aspetta, non travisare le mie parole. La chiavata dev'essere di ottima qualità, non ne va bene una qualunque. Una mediocre non incorona questa morte come la migliore! Anche se, però, un pompino con ingoio...

mercoledì, febbraio 22, 2012

Estemporaneo

Scrivo sotto stimoli: anche la paura, lo è.
Soprattutto quando si schianta a 180 km/h contro un muro innalzato dal tuo vicino che si è appena sparato una siringa di adrenalina dritto nella coronaria.
E boom!

lunedì, febbraio 13, 2012

Questione d'età

Non ricordo tantissimo, di quando ero piccola: solo piccoli gesti, spezzoni, sprazzi di sensazioni, emozioni in pillole, frivoli desideri e temporanee passioni.

All'età di 5 anni, mia madre decise di smettere di insegnare, a scuola: iniziò a dare ripetizioni di non-so-quale-materia a bambini poco più grandi di me.
Così io, che volevo restare in sua compagnia per ascoltare la sua voce, maestosa e severa, presi un libro, a caso, da un mobile e lo poggiai per terra: era un testo d'inglese, non ho idea di quale anno scolastico, suo, di quando ancora ci andava, a scuola.
Iniziai ad imparare le parti del corpo umano, i colori, le basi di una conversazione, posata ed educata. Decisi di voler diventare insegnante d'inglese, per poter parlare ai bambini più piccoli di me con voce severa e maestosa, proprio come faceva la mia mamma.

Quando avevo 6 anni ero già in seconda elementare.
Mi iscrissero in anticipo, a scuola, sebbene non fosse necessario. I miei pensavano fosse uno spreco lasciarmi giocare ancora con le costruzioni.
Trovai un libro di matematica, dallo stesso mobile, e divenne una droga.
L'insegnante di matematica, volevo essere da grande, sì.
Ricordo che mia mamma ne era talmente entusiasta che mi fece da mentore, lei, colosso laureato in economia e commercio che nella vita decise di fare tutt'altro.

Mio padre mi regalò una tavola periodica, plastificata, enorme, all'età di 7 anni: fu un regalo bellissimo. L'appesi proprio sopra la testata del mio letto. Ero così fiera, di quel regalo.
Qualche mese prima, innescare reazioni basilari fra miscele trovate in giro per casa, era diventata la mia passione. Mio padre era tecnico di laboratorio presso un'industria conserviera e adorava insegnarmi tutto quello che sapeva.
Adorava aiutarmi in tutte le mie piccole manie. Adorava seguirmi, in quelle poche ore in cui non lavorava. Adorava il suo piccolo strano esserino, alla quale aveva donato la vita e l'omonimia.
Decidetti così di iscrivermi all'istituto tecnico industriale pensando di proseguire gli studi, alla scelta della specializzazione, nel settore chimico.

All'età di 8 anni, ricordo che un giorno di febbraio - a posteriori decidetti che era il 25 febbraio - ero in casa, ad ascoltare “Betty Blu” da uno stereo quando suonano alla porta. Mia nonna si appresta ad aprire ed entrano i miei genitori, preceduti dal mio fratellino, Andrea, con in mano una scatola.
Dentro c'era un piccolo cucciolo, nero, con una lisca di pesce bianca sul petto. Un cagnolino dolcissimo, una femminuccia. Proposi di chiamarla Lilly. Mio fratello acconsentì, e Lilly fu. Mi appassionai tantissimo agli animali ed iniziai a sviluppare una malsana teoria. Iniziai, inoltre, a stimarli molto più delle persone, mendaci e traditrici. L'amore non si è mai estinto. Decisi di diventare veterinario, e dedicare la mia vita alla cura delle creature più deboli, schiacciate dalla violenza e dall'inciviltà dell'uomo.

Qui si interrompono i ricordi, o meglio, quelli relativi al concetto che volevo esprimere.

In questo preciso istante, l'anno corrente è il 2012.
Non ho più 5 anni.
Non ne ho nemmeno 6, tanto meno 7 oppure 8.
Ho abbandonato il proposito di diventare insegnante d'inglese o di matematica.
Ho deciso di non proseguire con la chimica, alla scelta dell'indirizzo specialistico.
Ho abbandonato ogni proposito di diventare veterinario.

L'unica cosa certa è che sono qui, con le spalle al muro e non so più né chi sono né cosa voglio essere.

domenica, febbraio 12, 2012

Un addio

Melanie: "Anche se fossi l'uomo fatto per me, anche se fossi l'amore della mia vita, sono certa che scapperei ugualmente, da te. Oh John, io ero sposata, una volta, anni fa. Ero molto molto felice e sono scappata."

John: "Perché?"

M: "Perché non so fare altro. Le cose si appiattiscono, si normalizzano, c'è l'appagamento. E allora io scappo. Dei bambini, sicuramente tu pensavi, sarebbe stato per sempre, prima di...
Io ti amo davvero. Non vorrei andarmene, né oggi né domani, ma so che dovrò farlo un giorno."

J: "Non ti capisco. Prima dici di amare una persona e poi, poi dici... ahhh"

M: "E' che purtroppo, sono fatta così. Ti avevo promesso di cambiare, ci ho provato, ci provo, ci proverò, sono già cambiata. Ma so che un giorno scapperò lontano da te."

J: "Beh, allora forse prima che soffriamo troppo, potresti, ehm, andartene oggi."


Ally McBeal - 4x15 - Detroit e ritorno

venerdì, febbraio 10, 2012

Cuore nero


Lacerami il cuore, te ne prego.
Sevizia ogni singola parte di me.
Stupra il mio cervello, ossigenalo, e poi fustigalo, ancora ed ancora.
Estirpami la memoria. Impossessati dell'anima. Cercala, prima, l'anima.

Prendi il mio cuore, strappalo dal petto, e scaglialo con foga contro la parete. Guardalo. Osservalo. Studialo. Poi, lancialo.
Nota i dettagli: essi costituiscono la struttura di ciò che di me resta, dopo la guerra, di ciò che di me non vedi - e mai vedrai - né percepisci.
Ammiralo, in tutta la sua instabilità. La sua struttura è simile a quella di un prisma, dagli spigoli posizionati irregolarmente, nevroticamente, in un assetto casuale e fitto: un fitto intreccio di spigoli, è il mio cuore.
Sembra un riccio, dalla squamosa superficie.
E' un carapce, dalla forma irregolare di un simil-prisma.

LANCIALO!

La scia rosso sangue ti imbratta la faccia, lasciandoti un sapore acre, sulle tue labbra.
Un sapore che penetra nella tua testa; che terribile lancinante dolore, provi: nel cuore, nello stomaco, nell'intestino che pulsa come se avesse vita propria. Produci bile, e quel sapore è così nauseante che corri a cercare dell'acqua per lavar via anche il ricordo, di quella terribile sensazione.

Il cuore si schianta contro la parete, in un impeto di disumana rabbia, di ingiustificata violenza.
Chiazze di sangue coagulato imbrattano la tinta unita, di bianco candido costituita, contro la quale ha urtato, quel povero cuore.
Si attacca al muro, come una melma viscida omogenea e compatta.
Si deforma, a causa dell'urto, e si ristabilizza in pochissimi attimi.
Scivola, giù, lungo l'intonaco, lentamente.

Impegnato in un'affannosa ricerca, preghi di trovare dell'acqua, o dell'alcool.
Ansimi con una frequenza incalzante ed il dolore diventa acuto, sempre più acuto. Lancinanti fitte alla gola. Credi di morire. Speri di morire.
Acido. Il sapore acido che ti sta entrando nel sangue è come la nicotina, come l'eroina: come la più viscida e subdola delle droghe.
Aria, manca l'aria. Manca l'acqua. Manca l'alcool, non importa sotto quale forma. Anche l'etilico, va bene. In tal caso, ti appiccheresti fuoco, pur di non soffrire così. Acido, macabro sapore. Ti entra nelle gengive.

Quel cuore continua a scivolare, come una lumaca, e la scia di muco scuro di sangue coagulato imbratta l'intonaco perfetto che lascia dietro sè.

Emette una lancinante vibrazione, che ti insegue e ti raggiunge, nell'altra stanza. Aggira il padiglione, affinchè non venga incanalato, per arrivare dritto all'essenza, al tamburo, al timpano. Esplode in un boato sordo.

Un suono lacerante, simile al fastidio che provi quando un armadio enorme di metallo strìde sulle mattonelle del pavimento sulla quale sei caduto, acuisce la tua sofferenza e ti rantoli in terra. Maledetta velocità del suono.
Ti ha raggirato e alle spalle ti ha assalito, mentre frugavi in ogni anta di questa casa, alla ricerca di un liquido che ti potesse togliere quell'acre sapore e guarire dalle mille malattie che ora ti pervadono, come chiara e pulita conseguenza dello schizzo insanguinato di scuro e torbido veleno.

Amore come forma d'altruismo

"[...] Siamo due persone diverse, con interessi diversi. Riferiamoci ai tuoi gesti, alle tue decisioni, ad esempio: io non posso che lasciarti fare quello che vuoi, preservando l'affetto, con la speranza di non perderti definitivamente.
I sentimenti non si dirottano, e tu lo sai. Io lascio che facciano il loro corso, con i loro tempi, e nelle direzioni da te volute.
Non ho intenzione di intromettermi in alcun modo: ti amo, sei una persona amata, da me, sicuramente ma non per questo posseduta - a meno che non sia tu a chiedermelo.
Sei libera di pensare, scegliere. Sei libera di agire.
Non sono in grado di definire l'amore: sono solo in grado di viverlo, e provarlo sulla mia pelle; ed è inutile provare a combattere moti passionali.
Ciò mi renderebbe oppressivo nei tuoi confronti.
Implicherebbe tener legata una cosa che non mi appartiene, ma che di sua spontanea volontà, ha deciso di stare con me, e amarmi.
Non ha senso, ti rendi conto, l'uomo geloso, l'uomo egoista, l'uomo virile che si fa rispettare, l'uomo, l'uomo e sempre l'uomo? E la donna?
Sono tutti stereotipi fallocentrici, e penso che una persona, a prescindere dal proprio genere, abbia il diritto di scegliere e decidere ciò che è meglio per se stessa, ciò che la fa stare bene.
Io ho scelto di essere altruista e disponibile con la gente.
Ho scelto di essere altruista con te, in particolare.
A te fa stare bene passare le serate a ballare, oppure al dipartimento. Oppure a letto con qualcuno.
A me fanno stare bene altre cose, che non si rispecchiano nelle tue, ma non è necessario che tu ti senta sotto pressione.
Sei una persona libera, ed io di questo, mi sono innamorato: di un cavallo selvaggio. [...]"

Ringrazio, di tutto cuore C., per i lunghi discorsi e per le singole parole, per il cuore e il cervello, per la mente, lo spirito e l'indipendenza, per la sincerità - nuda e cruda -, per la sintonia, per le risate e per le sorprese, per le lacrime e per gli abbracci, per il sesso violento e per le coccole dopo l'amplesso. Per tutto quello che è, e che io non sarò mai. Per essere il mio alterego, e l'unica persona che sa darmi quello che voglio senza chiedere mai niente in cambio. Grazie.

giovedì, febbraio 09, 2012

Buongiorno

Fredda e sterile, la mia mano toglie il lenzuolo dalla tua testa.
Caldo: avverti il tepore, generato per incanto, essudare attraverso il tessuto.

La contrapposizione dei brandelli di quello che sei, è tutto ciò che ti porterai sempre dietro, nello zaino, insieme all'acqua.

La Rabbia è il tuo sentimento predominante, anche se hai deciso di cambiare, di essere diversa, di essere migliore. Ogni azione compiuta nell'innato, affannoso, vitale bisogno di preoccuparsi del prossimo, è intrisa di Rabbia, un liquido amorfo dal sulfureo odore che alla vista sembra plasma: quel po' che ti è rimasto, che pompa, impetuoso, nel tuo piccolo cuore, o in quel po' che ne è rimasto.



"Sei un caso senza speranza", dicevi continuamente a te stessa; poi hai tolto gli specchi, e hai smesso di ripeterlo.

Però lo pensi ancora, che hai buttato anni interi della tua vita ad inseguire effimeri e vacui attimi di insana felicità.
Sorseggi un caffè.
E lanci la tazzina contro il muro.

Autorivolta

Banale. Mi hai detto: "non essere banale".

Vorrei scrivere del nero che ho intorno, nella mia stanza.
Con una mano mi sfioro i capelli: quella ciocca riccia che mi cade sulla narice sinistra, la sposto.
Chiudo gli occhi e chino indietro il capo.
Raccolgo una lacrima, e penso: "com'è difficile essere me".

Vorrei renderti felice. Vorrei poter non far soffrire i tuoi occhi verdi, non esserne in grado.
In una poesia che ti scrissi, li paragonai alle immense e floride praterie dove si lasciano correre i cavalli selvaggi come me.
Raccolgo una lacrima.

Vorrei poterti abbracciare, ancora. Ancora una volta, vorrei sentire il tuo cuore battere all'unisono con il mio.
Raccolgo un'altra lacrima, e aumenta l'intensità della rabbia.

E parlo di nulla, io, Mercuzio, dicono, possibile, quasi certo anzi.
E penso che non è per sempre, niente, in questa vita.
Forse nella prossima sarà diverso, tutto diverso.
L'ho detto spesso. Lo dico spesso.
Sono convinta di quello che dico, ora no, però: sono solo troppo stanca.
E troppo piena di te.

Vorrei essere un'altra, per poterti completare; per non bastarti mai e condividere insieme a te il resto dei miei anni senza un attimo di timore.
E sono qui, con un secchio di bile, a piangere di nulla, a parlare di nulla: della paura, forse.
Alla velocità della luce mi muovo, per poter continuare a vivere.
Per la mia stupida, insensata, infantile e lacerante paura della vita!
E distruggo tutto quello che creo, per poterlo ricostruire.
Non mi piace soffermarmi ad osservare e valutare ciò che mi riguarda: penserò sempre che fa schifo, e ciò mi rende nervosa. Così distruggo, e non ci penso più. E siamo tutti contenti. Tu no, credo. Io nemmeno, giuro. Ma siamo tutti contenti.

Niente è per sempre. Nemmeno la morte.
Dimmi che è vero. Dimmi che non esiste niente intorno.
Dimmi che sono viva. Dimmi una cazzata.

Dammi uno schiaffo.

mercoledì, febbraio 08, 2012

Scegli me

Ti scappa dalle mani con un salto, un gesto inconsulto, scappa via dal tuo letto. Con il suo collo sudato ed i suoi occhi iniettati di sangue, sembra chiamarti, la stronza.
"SCEGLI ME!" - un urlo che rompe il silenzio del cielo. Rabbrividisci.
Vorresti afferrarla, prenderla, stringerla, tenerla. Vorresti soffocarla.
Se solo potessi averla fra le tue mani, un solo minuto, il tempo necessario per poter stritolare il suo gracile collo, e dipingere di lividi il suo pallore.
Vorresti gremire questo piccolo mostriciattolo, che ti spezza il fiato.
Vorresti prenderlo per i capelli, per poterlo guardare dritto nelle pupille dei suoi occhi color del legno d'acero e dirgli: "ti amo, sono qui per te. Scegli me".
Scappa, dalle tue mani. Puttana. Veloce si rintana in un antro. Sibilla.
Ivi infili le dita, dentro, agitandole come un pazzo furioso, e ti graffi.
Ti laceri - dannati contorni di pietra, irregolari ed acuminati.
Ti si lacera anche l'urlo, in gola. Si blocca e si estingue. Muore, prima di nascere. Di più, non riesci a fare e ti accasci sotto il peso della sconfitta. Crolli.
Non la prendi: è veloce, questa sporca lurida femmina. Bastarda infame.
Riprendi fiato e deglutisci, così forte che il cuore ti si stringe in una morsa. Sanguini, come una colata di lava. Ti chini, poggi le labbra nella fessura.
Urli: "SCEGLI ME!".

mercoledì, febbraio 01, 2012

Parafrasi per dementi

Mi piace moltissimo parlare con le persone; la parte che preferisco è quando sono loro, a parlare con me.

Mi piace scrutarle. Mi piace quando gesticolano e quando dissimulano.
Mi piace il suono della voce, soprattutto se maschile: profonda, sensuale.
Mi piace l'espressività degli occhi. Mi piace l'empatia che provo nel guardarli, gli occhi. Mi piace il taglio della bocca, soprattutto quando sorride.

Mi piace il suono delle risate. Mi piace percepire la rabbia, temere di tutta la possenza sprigionata dall'odio, devastante. Mi piace osservare, a rallentatore, l'espressione del viso che da corrucciata, si rasserena.
Mi piacciono le rughe di espressione, mi piace la mimica facciale.

Mi piace accarezzare i capelli, dare una pacca sulla spalla, abbracciare fino a togliere il respiro. Mi piace essere guardata, e sentire il sangue raggelare.
Mi piace godere degli attimi in cui mi regalano un sorriso, e a tal proposito non ho ancora ben capito se è più fortunato chi lo riceve o chi lo procura, il sorriso.
Mi piace sentirmi serena, ed imbottirmi di effimera felicità da inalare.

Mi piacerebbe poterti aiutare. Mi piacerebbe potermi aiutare.
Mi piacerebbe poter essere quello di cui tutti hanno bisogno, al fine di riempire il vuoto che sento dentro.



Mi piace moltissimo parlare con le persone, stabilire con loro un contatto.
Lo trovo completo e stimolante, come amare e scopare. Sì, completo e totale. Assaporare tutto ciò che l'altro ti dà per supporre tutto quello che invece cela. Incuriorirsi ed innamorarsi, dell'altro; ed esplorare il mondo che porta con sé.

Questo blog non dà a me la possibilità di toccarti e a te, la possibilità di capirmi,
ma verrò incontro in maniera ridotta, ossia scrivendo, alle tue ridotte facoltà percettive, al tuo scarso impegno e dedizione e alla tua pigrizia.

Questo blog non ti darà la possibilità di guardarmi, mentre mi spoglio.
Ed io non conoscerò mai le tue reazioni, lontane, perché sarai sempre dietro uno schermo.
E tu, non conoscerai mai l'amore e il dolore con cui passeggio per strada, tutti i giorni, perché non incrocerai mai il mio sguardo.
E se un giorno sarai così sfortunato da riuscire a guardarmi, dritto nelle pupille dei miei occhi color merda, non leggere, bensì scuoti il capo e dimmi: "mi spiace, ma sono analfabeta".

Non chiedere, dunque, se non vuoi realmente sapere: se non sei abbastanza maturo da accettare le conseguenze.
Non interessarti a me, se non sei disposto ad impegnarti, ad ascoltarmi e a comprendermi: non si può vivere di leggerezza, "la leggerezza è un reato", mi hanno detto.
Eppure mi incontri per strada ed urti la mia spalla, e prosegui, dritto verso la tua stupida, vacua, meta. E quando l'avrai raggiunta, nemmeno allora, ti ricorderai di avermi urtato. Perché sono invisibile. Sono il tuo giullare. Colei che indossa la maschera di Arlecchino e si dipinge di mille colori il corpo, nudo.
Ma tu non ti accorgi che la base dell'acrilico è il sangue dei miei ricordi e le piastrine del mio presente. Ed il colore, si attacca, su di me, come l'angoscia del futuro che mi ottenebra la mente. E la ottenebra anche a te.
E siamo così sfiduciati ed insicuri, che abbiamo paura che ci possano ferire ancora. Ma che male puoi farmi, se nemmeno ti accorgi di me?


"Adoro le persone che mi fanno ridere. Penso che ridere sia la cosa che mi piace di più. E' la cura per moltissimi mali."
(Audrey Hepburn)