mercoledì, giugno 27, 2012

La grandezza di un uomo giace nel suo busto

Di lui non vedeva che le gambe, da laggiù.
Era un uomo enorme, gigantesco, altissimo. Era un uomo così fottutamente grande, che di lui si vedevano solo le gambe, ma ciò le bastava.
Non riusciva a guardarlo negli occhi, nemmeno quand'egli era seduto, sul loro letto. Le gambe, piegate, riempivano la stanza: muscoli, sangue e ossa, riempivano il suo vuoto, ma le concedevano di osservarne la base del tronco.
Non si riusciva mai a guardare che faccia avesse quell'uomo, tanto era lontano, tanto era grande.
Lei conosceva le sue cosce, i suoi polpacci; sforzandosi riusciva a ricordare anche i segni del busto, ma era raro che lui si concedesse riposo, sedendosi accanto a lei. Era sempre in piedi. Era sempre in alto. Era sempre il più grande.

Lei lo amava, o almeno, amava quello che di lui poteva avere, vedere o immaginare. Sì, lei lo amava. Tutto.
Amava ciò che lui le concedeva, fosse stato anche solo un piede, lei lo avrebbe desiderato alla follia, quel noccoluto estremo. Alluci inclusi, ché sono importanti, anche se non fondamentali.
Amava quello che di lui immaginava: il suo viso, il suo sguardo, le sue spalle, il suo petto, su cui non avrebbe mai poggiato il capo.
Lo creava e lo distruggeva spesso, nella sua mente; modificava i tratti del viso, i capelli, gli occhi: lo rendeva ogni giorno diverso, sempre più bello.
Lei non si sarebbe mai annoiata di lui: di lui che era lassù; di lui che non era al suo livello.

Ma lei, inutile inetta, poteva amarlo ben più di quanto già facesse, ben più di qualunque altra donna egli abbia mai avuto; poteva dimostrarlo, ora più che mai, in un solo, ridicolo, modo.
Ella decise di donargli una cosa, sopra tutte le altre: quella che più manca, ad un uomo così. Il dono che lei poteva offrirgli, era ben più elaborato di ciò che nasconde intrinsecamente ogni parola con ogni propria definizione.
Non era la tranquillità di quell'immenso essere, ciò che lei poteva garantirgli, difatti, in contrapposizione, ella si premurava di concedergli sempre la giusta dose di incendiari litigi. Non era neppure dimostrargli anche solo una garanzia sulla sicurezza di quello strano rapporto, tutto gambe, ciò che lei poteva fare per lui, visto che si può sempre rescindere qualunque contratto, meno quello stipulato con la morte.

I grandi uomini sono spesso vulnerabili, nel profondo, in un profondo che non si cela nelle gambe o nella testa, ma nel busto, in una zona che s'intravede solo quando essi sono stanchi e hanno bisogno che qualcuno allevii le loro ferite.

Lei non avrebbe mai potuto regalargli niente di più sano, ad un uomo così grande, che il concedergli di ascoltare il suono della sua stessa genuina e poderosa risata, da troppo tempo dimenticata, oscurata dall'oblio; il donargli la consapevolezza che la felicità la meritano tutti, ma alcuni faticano a trovarla.
E quando egli, stanco, tornerà a casa da lei, e siederanno insieme, sul loro letto, non avranno bisogno di parole, non avranno bisogno neppure di guardarsi: saranno le loro risa, a creare un legame che compensi ogni mancanza.

martedì, giugno 19, 2012

Purtroppo arriva sempre la Domenica

Lei viveva in un piccolo villaggio, s'una ridente collina: lì era sempre Sabato.
Lui era follemente innamorato di lei: gli piaceva tutto, proprio tutto, di lei.

"Forse un giorno ti mostrerò qualcosa di me che non ti piacerà: sarà quando ti mollerò."
"Vedrò allora di giocare d'anticipo, in modo da tramandare ai posteri, il fatto che di te mi piaceva tutto, e che ti ho mollato solo per non macchiare questa bella affermazione."

domenica, giugno 17, 2012

Vi siete mai chiesti perché volete sposarvi? (pt. 3)

Al vecchio campano non trovai nessuno: mi girai e rigirai, ma niente.
Mi mossi di qualche passo, lì intorno, fra le viuzze del centro, guardando dietro ogni muro, in ogni finestra là in alto. Niente.
Decisi di aspettare: bofonchiando un "sarà in ritardo, come tutte le donne", mi sedetti e voltai le spalle alla storia.

Knock. "Ahi!", mossi il capo di scatto e mi ritrovai sui pantaloni un nocciolo di ciliegia, caduto dall'alto.
Beh, se Dio si è messo a sputarmi in testa noccioli di ciliegia, siamo alla frutta!
Un altro. Un altro ancora. Mah. Mi grattai la fronte, allibito.
La mia faccia assunse un'espressione sempre più perplessa.
Beatrice faceva capolino dietro il muro e di lei s'intravedeva solo la testolina riccia e bionda, sorrideva, in uno dei pochi momenti della nostra vita insieme in cui l'ho vista sorridere, una delle pochissime volte in cui, in tutti quegli anni, io l'ho mai vista felice, serena, ed era bellissima.


Da allora ne è passato, di tempo. Come ho detto all'inizio, "non ho granchè voglia di raccontarvi la mia storia", per cui adesso procederò ad altissima velocità.

SPEEDx900
Mollai Clarissa con poche parole: "Non ti amo più Chicca, mi spiace". Mi arrivò una grossa sberla.
Mi fidanzai con Bea. Mi tradì ripetutamente con quello, forse anche con altri. La tradì ripetutamente per vendetta, imbottendomi di viagra: le altre donne non mi piacevano per niente, ma qualcosa dovevo pur fare!
SPEEDx1

Il nostro fidanzamento durò tre anni, fra mille alti e un milione di bassi, forse non della stessa intensità.
Cornuto sì, coglione no: per farmi tradire tre anni, avrò avuto dei motivi!, magari non ottimi, magari opinabili, ma erano pur sempre dei cazzo di motivi!
Va bene, non ne avevo nessuno.
L'unica ragione che potevo addurre era che l'amavo alla follia, quella piccola, lurida, stronza, ma spesso l'amore non basta, soprattutto se unilaterale.
Non scopavamo neanche più: si stancava troppo, nel farsi sbattere dagli altri; con la testa contro il muro, l'avrei sbattuta io!

Un giorno decisi che non ne potevo più. Intriso di bile e con il sangue azzurro, le telefonai a lavoro, e lei odiava tantissimo quando le telefonavo a lavoro.
"Pronto?"
"Oh, Bea, senti, dobbiamo parlare."
"Ugo? Che palle! Ma cosa vuoi? Non devi chiamarmi a lavoro! Quante volte te l'ho detto?!"
"Non abbastanza evidentemente. Senti Bea, non mi importa niente di quello che stai facendo, dobbiamo parlare, adesso."
"Ma ti sei bevuto il cervello?! Ora non posso assolutamente. Sto lavorando!"
"Fra trenta minuti sono da te. Regolati!"
Riattaccai e uscii.

Vi risparmio la descrizione sulla folle corsa per raggiungere il suo ufficio: avvocato di stocazzo, era lei, presso uno studio di avvocati di staminchia.
Probabilmente anche il suo capo se la sbatteva: lui contro la scrivania, però!
Entrai nel suo studio con gli occhi di un folle, grondando sudore, bile e azzurro.
"Ma che cazzo ti prende?", esordì la bionda.
"Bea, sono arrivato al capolinea. Con te è un continuo arrampicarsi e precipitare! Non so se mi ami. Non so quanto mi ami. Non lo capisco!
Ho una dannata paura di perderti, a causa della tua costante freddezza nei miei riguardi. Non ridi mai, non sorridi mai. Non facciamo più l'amore!..."

Bea mi guardava sdubbiata, con un labbro arricciato e un sopracciglio inarcato.

"Il tuo amore, Bea. Il tuo amore: io non lo riesco a decifrare! Il tuo essere perennemente ostile... non riesco a darmi per vinto. Ho paura di perderti, Bea: sei ogni giorno più lontana, irraggiungibile. Vorrei fidarmi di te, come una volta. Vorrei poter credere alle tue promesse. Vorrei poter avere dimostrazione del tuo amore. Una prova, una soltanto."
"Averla, Ugo, ti cambierebbe davvero l'esistenza? Se io un giorno smettessi di essere come sono, per un solo giorno, tu, Ugo, ti fideresti di nuovo di me?"
"Bea, non ce la faccio più. Ho bisogno di te, nella mia vita. Non riesco più a vivere con questa angoscia, che come una morsa mi stritola il cuore, spurgando sangue e veleno. Voglio che tu sia mia, per sempre, Bea. Vuoi sposarmi?"

Bea rispose di sì.
Tornammo a casa nostra e facemmo l'amore, tutto il giorno, fino a notte fonda.
La mattina dopo mi svegliai e lei non giaceva più a letto con me.
M'alzai di colpo ritto in piedi e vidi le ante degli armadi e dei mobili, i cassetti: era tutto spalancato.
Bea se n'era andata, portando con sé le sue cose e il mio amore.
Mi lasciò solo un biglietto e un grosso, grosso carico di amarezza e disperazione.

"Sono un'artista. O la tua tela, e tu l'artista. Sono un'opera d'arte. Sono la tua creazione, artista, che prende forma, ma senza il tuo controllo."

sabato, giugno 16, 2012

Vi siete mai chiesti perché volete sposarvi? (pt. 2)

Il giorno dopo mi rispose con un messaggio sul cellulare, telegrafico e brutale.
"Come ti sei permesso di mettere le mani nella mia borsa?! Se ti becco di nuovo, ti denuncio."
Un ottimo inizio, pensai; per contrappasso, avevo il suo numero.

Il giorno a seguire, mi mandò un altro messaggio. Erano le dieci di sera, lo ricordo bene. Avevo un appuntamento con Clarissa, da lì a un paio d'ore.
Clarissa era la mia ragazza.
"C'è qualche nube, oggi, in cielo, ma non mancherò e mi leverò alta. A mezzanotte, vicino al campano. Mi riconoscerai."
Non era la prima volta che giocavo a quello stupido gioco. Avevo già lasciato lo stesso messaggio ad almeno otto ragazze, negli ultimi tre anni.
Era la prima volta, però, che qualcuna rispondeva, che non strappava e gettava via il biglietto, senza neppure dargli peso. Nessuna mi aveva mai richiamato.

Alzai la cornetta e chiamai la mia donna. Le mentii e fu l'unica volta.
"Chicca, ascolta, ho avuto un contrattempo, possiamo rimandare la nostra uscita?"
"Cos'è successo, Ni?"
"Beh, niente. C'è Bob che ha forato una ruota e mi ha chiesto se potevo andare al campano a prenderlo. Si è fermato lì con la macchina."
"Poverino, che sfortuna. Mi spiace non poterti vedere stasera, ci tenevo davvero tanto. E' una settimana intera che sei pieno d'impegni..."
"Dispiace anche a me, Chicca. Mi farò perdonare vedrai. Troverò un po' di tempo, domani, per chiamarti e raggiungerti ovunque sarai, se possibile. Ok?"
"Va bene, Ni... Salutami Bob."
"Grazie Chi. Grazie per aver capito. Ci sentiamo domani. Buonanotte, angelo."
"Buonanotte anche a te."

Telefonai anche a Bob e gli chiesi di reggermi il gioco.
"Ti giuro che domani ti richiamo e ti spiego il perchè. Ora devo andare. Sei un amico."
Riattaccai la cornetta e presi le chiavi, infilai i sandali e corsi in direzione del vecchio campano.

venerdì, giugno 15, 2012

Vi siete mai chiesti perché volete sposarvi? (pt. 1)

Credete davvero che pagare qualcuno, in modo più o meno subdolo, più o meno cosciente, per il suo amore, lo terrà sempre a voi, caro e devoto?
Vi sbagliate di grosso.

Ammetto: non ho granchè voglia di raccontarvi la mia storia: è una fra tante.
Credo, però, che supererò la mia svogliatezza per tediarvi con l'ennesima, anonima, monotona, favola. Che vi serva da lezione!
E indovinate un po'? Avrà anch'essa il solito finale.

Ho sposato Beatrice tre anni fa. Siamo stati fidanzati per tre anni, prima del grande giorno. Quando l'ho conosciuta aveva gli occhi impetuosi del mare in tempesta, azzurri, vitrei, i capelli color dell'oro, lunghi e ricci, quasi innaturali.
Raramente sorrideva, da ragazza, ma era la creatura più affascinante che io avessi mai incontrato. Beh, lo è tuttora, ovunque si sia nascosta, la creatura più affascinante che io abbia mai incontrato, nonostante mi abbia cacato sul petto.
Era una ragazza glaciale, fredda e calcolatrice. Era tutto quello che io non ero.
E che, poi ho scoperto, non avrei mai voluto essere.

Quando ci siamo conosciuti aveva da poco compiuto ventun'anni.
Io ne avevo ventiquattro.
E' stato amore a prima vista, per me: era la ragazza più bella del locale, quella sera. Ed era già di qualcun altro.
Sedeva al bancone del pub, con quello che poi scoprì essere il suo ragazzo, e beveva una birra rossa in un boccale di vetro da un litro.
Che donna!, ne rimasi folgorato.
Avrei tanto voluto poterle parlare, avvicinarmi a lei, ma non trovai il coraggio.
Con che faccia mi presentavo, lì, in mezzo a loro due, pucciosi fidanzatini?
Per dirle, cosa? Per fare, cosa?
Ammettiamolo: non avrei terminato la frase che mi sarebbe arrivato un destro dritto sul naso. Quello che sedeva accanto a lei, non sembrava simpatico.
Decisi così di lasciarle un biglietto, scritto su un fazzoletto raccattato da un dispenser del pub, che le infilai di traverso nella borsa poggiata per terra.
Lei non mi vide. Quello nemmeno. Uscì e andai via.
Il biglietto citava: "Fra due giorni ti mostrerai in tutta la tua bellezza, pallida luna piena?". In basso, scrissi il mio nome, e il mio numero di telefono.

mercoledì, giugno 06, 2012

Bella senz'anima, sei, Monica

Monica era particolarmente bella, quella notte.
Ci frequentavamo da circa quattro settimane e mai era stata bella come allora.
Con lo sguardo di chi il mondo lo aveva già addentato alla gola, sbranato, masticato, e infine sputato, mi guardava vogliosa, distesa sul mio letto.
Avevamo fatto l'amore, tutta la notte, e per tutta la notte le mie labbra non si erano mai allontanate dalla sua pelle.
Mi guardava, Monica, con indosso solo l'odore del mio sapore.

I capelli sconvolti, gli occhioni languidi: com'era bella Monica, quella notte.
I muscoli del suo viso si rilassavano sempre tantissimo, dopo una piacevole scopata; se gli orgasmi che le regalavo, perché uno non le bastava mai, erano abbastanza soddisfacenti, le si imprimeva inoltre un dolcissimo sorriso. E le si gonfiavano le labbra. Entrambe.
Si avvicinò ai piedi del letto e prese la mia maglietta nera dal mucchio dei nostri vestiti. "Nostri": quanto avrei voluto poter dare a quel termine un significato più profondo.
La indossò, e toccando con la pianta del piede destro, nudo, il pavimento gelido, poi poggiando in terra anche il piede sinistro, si alzò in piedi.
"Olimpiadi della Matematica 2012", citava la scritta bianca su fondo nero impressa sulla parte alta della maglia, davanti.
Una parte di me su di lei, ancora una volta.
Avevo constatato, durante quelle quattro settimane, che mi piaceva venire su ogni parte del suo corpo che reputassi bella.
Ho iniziato inondandole il petto e ricordo che quell'orgasmo fu particolarmente violento: getti lunghissimi di sperma mi permisero di apprezzare anche il suo sorriso, e la sua risata.
Successivamente venni sulla sua schiena e, oh, Dio, sui suoi incantevoli, lunghi piedi.
Non c'era una sola parte di lei che non avrei voluto sposare con una parte di me.

Mi sorrise maliziosamente e tirò indietro i capelli, inclinando la testa da un lato.
Aveva gli occhi che bramavano sesso: ancora, ancora.
Le labbra carnose erano ora ancora più gonfie e rosse, irrorate di sangue e piacere.
Ammetto di aver pensato "bella bocca, starebbe magnificamente attorno al mio cazzo", la prima volta che la vidi. Da allora, ogni volta che ci amavamo, mi complimentavo da solo per il gusto e la competenza posti nella scelta.

- Caro, che ne diresti di fumarci una bella sigaretta, io e te, fuori da questa stanza?
Era la sua frase di rito. La frase di rito della mia piccola Bukowski.
La ripeteva ogni settimana, dopo ogni nottata passata a scopare.
Erano le 5.30 del mattino, lo ricordo benissimo.
- Mais oui, Cherie - risposi con la mia, frase di rito.

Uscimmo fuori, in terrazza.
Era troppo presto per ammirare l'alba, ma troppo tardi per godere della notte.
Il freddo mi entrava nelle ossa e le frantumava, mi ricordava che ero ancora vivo, che ero ancora accanto a lei, che lei ancora accanto a me.
Monica fumava la sua sigaretta, sorridendo, e guardando verso l'orizzonte, costituito ormai da una schiera di palazzi. Chiudeva sempre gli occhi, quando aspirava una boccata di veleno, tirando indietro la testa. Al momento di espirare, li spalancava e con il naso cercava il gelo, muovendo ritmicamente le narici.
Era una donna spietata, spietata quanto bella. Ed io ero un uomo fottuto.


Conosco Monica ormai da quattro anni e dal nostro primo incontro non sono più stato in grado di discernere la realtà dalla fantasia.

Nelle mie fantasie, io sono il suo professore di matematica.
Nella mia realtà, lei è la mia prostituta settimanale.

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